Qual è il disco più difficile per una band? Il secondo o il terzo? Gli Idles non sembrano darsene pensiero e ne sfoderano ancora una volta uno senza timore reverenziale, riuscendo di nuovo a superarsi rispetto alla prova precedente. Se infatti “Joy As An Act of Resistance” aveva spazzato via “Brutalism” in quanto a qualità della scrittura e consapevolezza narrativa, questo “Ultra Mono” rappresenta un ulteriore passo avanti e promette di costituire il mezzo per un definitivo ingresso nel Mainstream da parte del gruppo di Bristol. Che fa un po’ strano, se ci pensate. Non eravamo più abituati alla scalata delle classifiche (per lo meno in Gran Bretagna) da parte di gruppi così visceralmente appartenenti all'estetica rock, seppure qui riletta secondo gli stilemi di Punk, Post Punk e tutto quel che sta nel mezzo. Non avranno mai i numeri degli Oasis, ma sostenere che gli Idles potrebbero, prima o poi, rivestire un ruolo culturale simile a quello che ebbero i Clash, potrebbe non suonare come una predizione delirante. In comune con Joe Strummer e compagni, al di là della consapevolezza politica, hanno senza dubbio il rapporto coi fan (il gruppo Facebook “All Is Love AF GANG” prima o poi dovrà essere oggetto di una tesi in sociologia, secondo me) e una propensione a comunicare liberazione, consapevolezza di sé e gioia di vivere, attraverso la violenza della loro musica.
Che non è, appunto, una violenza nichilista, bensì costruttiva, quasi una celebrazione collettiva della differenza che crea unità. L’avevo già in qualche modo intuito la prima volta che li vidi dal vivo, al Primavera Sound del 2018, pochi mesi prima dell'uscita del secondo disco: erano le tre di notte, mi pare, e diedero vita ad uno show devastante, dove la stragrande maggioranza del pubblico si picchiò per tutto il tempo (ne presi parecchie io stesso, avendo avuto la malaugurata idea di sistemarmi in transenna) ma in un assoluto clima di tranquillità e spensieratezza. Sì lo so, fa ridere, però è esattamente quello che accade, o comunque io lo percepii in quel modo.
“Ultra Mono” arriva due anni dopo il lavoro precedente, che era stato celebrato anche con un ottimo album dal vivo, registrato al Bataclan di Parigi. Capire come avrebbero potuto rinnovare la formula, avendo a disposizione un linguaggio così scarno e tutto sommato codificato, era un interrogativo che andava al di là delle mie possibilità. Senza fare paragoni, perché si tratta di una band molto diversa, ma quando i Fontaines D.C. , loro compagni di etichetta alla Partisan Records, hanno pubblicato “A Hero's Death” un paio di mesi fa, era stato tutto sommato più semplice capire come mai avessero potuto suonare così diversi rispetto al loro esordio.
Per Joe Talbot e compagni la prova appariva più complessa e invece l’hanno superata brillantemente. E l’hanno fatto in maniera un po’ gattopardesca, cambiando tutto per non cambiare niente, anche se in questo caso l'accezione non va presa in modo negativo.
Il principale punto di forza è il coinvolgimento del produttore Kenny Beats, che ha lavorato con nomi importanti come FKA Twigs e Vince Staples e che è andato ad affiancare i soliti Nick Launay e Adam Greenspan, ancora una volta arruolati dietro la consolle.
La scelta di Beats, che proviene dal mondo dell'Hip Pop, è stata finalizzata proprio ad assecondare la passione che i nostri hanno sempre avuto per questo genere e ha effettivamente dato un'impronta molto diversa al sound: l'iniziale “War”, da questo punto di vista, è probabilmente il brano più potente mai scritto dagli Idles, un assalto frontale senza compromessi, con le chitarre e la sezione ritmica a creare un Wall of Sound quasi sproporzionato e la voce di Talbot che si staglia perfetta su questo marasma.
E poi l'altra geniale trovata: l’inserimento al Sax di Colin Webster dei Sex Swing, amico della band, che coi suoi interventi disseminati in gran parte dei brani, ha dato al tutto un tocco di inquietante straniamento quasi Free Jazz. Sentire come il suo strumento si staglia dissonante sulle furiose rasoiate di Mark Bowen e Lee Kiernan è decisamente una sorpresa e contribuisce a rinnovare l’impronta sonora del gruppo senza operare chissà quali stravolgimenti.
Gioca più o meno lo stesso ruolo il cameo di Warren Ellis nel finale di “Grounds”: il tocco del Bad Seed è assolutamente personale e carismatico, pur limitandosi a poche battute, e riesce a caratterizzare un brano già di suo quadrato e pesante, dall'andamento marziale.
Ci sono altri ospiti nel disco: Jehnny Beth, che urla il suo “Ne Touche Pas Moi” nel brano omonimo, che sfiora la tematica femminista così cara alla band; e poi il pianista jazz Jamie Cullum, che suona l’intero di “Kill Them With Kindness” (“Volevamo inserire qualcosa che facesse da contrasto, come un punto alla fine di una frase, per creare uno stacco” ha spiegato Talbot a Rumore), oltre ad una sporadica comparsata di David Yow dei Jesus Lizard.
Ma sarebbe sbagliato pensare che la riuscita di “Ultra Mono” sia dipesa esclusivamente dai contributi esterni. Al centro c’è come sempre una scrittura di altissimo livello che, come già detto, non si discosta dal solito marchio di fabbrica del gruppo ma che rinuncia quasi del tutto agli inni di battagli e ai ritornelli anthemici, per concentrarsi soprattutto su atmosfere cupe, frequenze basse e impatto sonoro devastante. Poche melodie e poche atmosfere festaiole, dunque. Chi si aspettava una nuova “Danny Nedelko” rimarrà deluso ma è bene dire che non mancano un paio di singoli catchy e dai ritmi saltellanti: su tutti “Mr. Motivator”, forse quello che più si avvicina al tipico trademark Idles, particolare anche per il testo dove sfila una galleria di personaggi improbabili in situazioni assurde, come David Attenborough che balla in un club assieme a Le Bron James; oppure “Model Village” divertente ritratto dell'Inghilterra Post Brexit, raccontata attraverso la metafora del piccolo paese.
Il grosso dell'album però concede molto di più all’aggressività e alla pesantezza, piuttosto che alla melodia e lo stesso Talbot pare avere appreso la lezione dell'Hip Pop, laddove pare molto più attento al ritmo delle frasi e al suono delle singole parole, e non a costruire un ritornello dalla linea melodica irresistibile.
Tra le cose migliori c’è sicuramente “Reigns”, con il sax che riempie il vuoto lasciato dalla ritmica scarna e ossessiva del basso e un ritornello che rappresenta una deflagrazione rumoristica di grande effetto. Bellissima anche “The Lover”, che parte lenta, con un riff ai limiti del Doom e giunge al culmine con Talbot che declama convinto: “Fuck You, I'm a Lover!”.
Ma anche quando si allontanano dalla formula muscolare riescono ad essere convincenti: ne è la prova un altro singolo, “A Hymn”, che qualche mese fa si era fatto notare per un video molto suggestivo in cui i nostri accompagnavano in pieno lockdown i loro genitori a fare la spesa. Il brano gioca su ritmi lenti ed atmosfere quasi Dark ed è forse l’unico punto di ideale contatto, se proprio uno dobbiamo trovarlo, tra i cinque di Liverpool e i Fontaines D.C.
“I want to be loved. Everybody does” cantano proprio in questo brano. La scommessa, parrebbe di capire, è proprio questa: riuscire ad essere amati a prescindere da quello che si combina nella vita. Amati perché si esiste, punto. Gli Idles ci dicono che l’amore è più importante della rabbia per le cose che non vanno, della frustrazione per un mondo che diventa peggiore ogni giorno che passa; perché sarà anche vero che è così, ma è altrettanto vero che le persone che non hanno rinunciato alla loro umanità si riconoscono subito.
“I Am I” è il mantra che era già risuonato in passato e che risuona anche in “Ultra Mono”. Non smettere mai di lottare, non smettere mai di desiderare. Gli Idles sono riusciti a realizzare il disco più violento della loro carriera e contemporaneamente quello più ostico ma anche, paradossalmente, quello più aperto e luminoso.
“Siamo derivativi, siamo tutto ciò che amiamo ed è bellissimo” ha scritto Joe Talbot nelle note introduttive che accompagnano l'album. A questo punto io li vedo lanciatissimi per prendersi tutto quel che si può prendere. Perché se già prima erano una delle band più grandi del momento, non oso pensare a cosa diventeranno quando queste dodici canzoni saranno entrate definitivamente nelle nostre vite. Se poi riprenderanno anche i concerti, non ce ne sarà più per nessuno.