È vero quel che ha scritto Francesco Vignani su Rumore, recensendo il disco in questione. Dopo le efficaci intuizioni melodiche di “Capacity” ci si aspettava che i Big Thief, per il loro terzo album, facessero il salto definitivo, con una produzione curata e canzoni che definissero una volta per tutte il concetto di Indie Rock.
Ancora di più sarebbe stato lecito aspettarselo, se si considera che questo è il disco che segna il passaggio del gruppo alla 4AD, dopo che i primi due lavori erano stati realizzati per Saddle Creek, etichetta di culto assoluto (è quella dei Bright Eyes, giusto per capirci) ma senza dubbio meno prestigiosa.
Non è successo niente di tutto questo: “UFOF.”, a conti fatti, è probabilmente il lavoro più ostico del quartetto di Brooklyn e sembra quasi fatto apposta per allontanare l’hype e far volgere la testa da qualche altra parte.
La differenza è che, se per l’illustre collega questo aspetto risulta problematico, per me è invece un punto di forza, forse il più grande merito di questo album. Certo, all’inizio si rimane spiazzati perché i brani non sono immediati, i ritornelli spesso si confondono nelle strofe e mancano potenziali hit come “Shark Smile”, che per il sottoscritto era stato uno dei brani più indovinati del 2017.
In più, c’è un tono di generale malessere, di inquietudine, un ripiegarsi su se stessi che ben si combina con una marcata impronta Lo Fi. È come se Buck Meek (chitarra), Max Oleartchik (basso) e James Krivchenia (batteria) avessero semplicemente deciso di prestare la loro opera alle composizioni di Adrianne Lenker, sempre assoluta protagonista nella scrittura di musica e testi (“From” e “Terminal Paradise” sono tra l’altro riprese da “Abysskiss”, il suo disco solista dello scorso anno).
Questo accentuato minimalismo è comunque frutto di una scelta ben precisa: “UFOF” è il primo lavoro composto da una formazione stabile, cementata da una serie pressoché infinita di concerti (circa 700 in meno di tre anni, a sentire loro), tanto che il processo di scrittura e registrazione, avvenuto in una cabin nei dintorni di Seattle, è stata veloce e per nulla complicata, con molti episodi usciti alla prima o alla seconda take.
Anche il titolo, che fa riferimento al celebre acronimo per identificare gli oggetti volanti non identificati ma che aggiunge una F in più a significare “Friend”, sembra parlare di una conquistata armonia tra loro: amare l’altro con tutta la sua diversità, per quanto “aliena” e disturbante possa essere, costituisce l’altra faccia della scoperta e dell’accettazione di sé.
C’è sempre la matrice Folk, quella che ha in qualche modo contribuito a definire il sound della Saddle Creek: “Cattails” (un evocativo ritratto della bisnonna della Lenker) è deliziosamente bucolica mentre “Orange” è un ispirato e persino luminoso bozzetto acustico, quasi come se la cantante e Buck Meek fossero tornati ad essere un duo come agli esordi. Più o meno sulla stessa falsariga è la title track, con un arrangiamento solo leggermente più pieno ed una melodia vocale che è in assoluto la più bella dell’intero disco.
In generale però, è un lavoro scuro, straniante, ben esemplificato dall’opener “Contact”, andamento da cantilena sghemba e feeling leggermente sinistro; oppure “Jenni” (dopo “Betsy”, un altro ritratto di una persona immaginaria ma che la menzione del nome proprio rende particolarmente reale) e “Magic Dealer”, paesaggio autunnale dipinto con pochi ed imprescindibili tocchi.
Il tutto corredato da testi come sempre ben scritti, evocativi, che non rinunciano alla crudezza (“From” parla di abusi senza troppe reticenze e pur se meno esplicita di una “Watering”, per dire, riesce comunque a ad essere un pugno nello stomaco) ma che mostrano anche tutta la fragilità e il desiderio di accettazione di Adrienne. Non è più la ragazza timida che si trasferì da Boston a New York qualche anno fa, ma dietro il suo voler essere una musicista nomade, quasi senza radici, si avverte anche una fragilità che risalta parecchio in gran parte della sua prova vocale su questo album.
Non avranno riplasmato i canoni dell’Indie ma i Big Thief di “UFOF” hanno fatto vedere a tutti che il Folk può essere suonato anche prescindendo dai luoghi comuni tipici del genere. Non è il loro capolavoro definitivo ma proprio per questo siamo così contenti: non possiamo neppure immaginare che cosa potrà arrivare in seguito.