«Ogni volta che pubblico un disco è come una fotografia di dove ci troviamo in quel momento. Una fotografia musicale, per così dire, con la formazione attuale e credo anche, con l'avanzare dell'età, di come guardiamo il mondo in certi modi. In Twenty si parla della guerra in Iraq e del modo in cui la gente vive la crisi dei mutui. Ma allo stesso tempo, con la musica soul rendiamo omaggio e facciamo un tributo ad alcuni dei nostri eroi, mostrando il nostro rispetto. Indicando da dove veniamo».
Estratto di un’intervista a Robert Cray da bluesblastmagazine.com
Sono trascorsi già quasi vent’anni dal pluripremiato Strong Persuader, disco che lo erge a nuova star del blues moderno, quando Robert Cray pubblica Twenty, nel 2005, accompagnato dagli ormai fidati Jim Pugh, Kevin Hayes e Karl Sevareid. E ne sono passati quasi altri venti per arrivare al giorno d’oggi, e constatare che l’artista di Columbus ha sfornato in carriera una serie di lavori apprezzabili, incanalando il blues urbano, che era il suo fondamento, ma sempre lievitandolo con la sua anima soul, il suo amore per Sam Cooke, Otis Redding e le ballate r&b, sostenendo il tutto con la sua Fender Stratocaster pura e priva di distorsioni. Ma in verità dopo l’esordio mainstream di Strong Persuader e il tentativo riuscito a metà di riproporsi nella stessa chiave con Don’t Be Afraid of the Dark, non sono bastati classe, finezza ed eleganza a mantenere in costante ascesa la qualità delle opere di Cray. Ci sono stati alti e bassi, forse troppa ripetitività nella formula proposta, e gli anni Novanta hanno lentamente allontanato i dischi pubblicati dal traguardo della continua evoluzione e innovazione, pur mantenendo, come già accennato, un discreto livello.
Twenty è il momento di una piccola rinascita, una nuova fresca commistione di generi si evidenzia soprattutto negli highlights presenti in tracklist: si parte dal reggae blues pieno di sentimento dell’opener “Poor Johnny”, storia della brutta fine di un imbroglione, con assoli di chitarra sofferti a ricordare l’urgenza e la genuinità di “Right Next Door”, per giungere alle note struggenti della title track, una soul ballad che tratteggia la tristezza di ogni guerra descrivendo quella allora in atto in Iraq. In quest’opera si rigusta quella voce dolce e acuta, quella chitarra blues pungente, quell'anima di Memphis. Ed ecco nuovamente il collegamento a Strong Persuader: si riassaporano gli entusiasmi dei primi successi, la spontaneità dei tempi in cui Cray apriva per gli Stones, era coautore di canzoni con Eric Clapton, e la prova del suo sorprendente talento era proprio lì, in dieci brani originali, ognuno dei quali parlava di tradimento e delle profonde questioni ad esso legate. E tornando alle parole dell’intervista citata, Twenty è una fotografia musicale che inquadra il momento vissuto, sono cambiati a volte gli argomenti, permangono i temi della difficoltà nelle relazioni sentimentali, tuttavia c’è meno introspezione e si guarda più a ciò che accade di brutto nel mondo; in fondo quando si narra di un conflitto e delle sue conseguenze si descrive sempre un tradimento, che da personale diventa universale e coinvolge l’ingordigia dei potenti, pronti a sfruttare il debole di turno.
Undici canzoni in questo caso, e solo una cover, la storica “I Forgot to Be Your Lover” della leggendaria accoppiata William Bell e Booker T. Jones, un motivo reso celebre negli anni anche dagli artisti più svariati, da Billy Idol al recente Bruce Springsteen. Tutti gli altri pezzi sono autografi, nascono dalla penna affilata di Robert e dei suoi pregiati compagni d’avventura, una band davvero affiatata. Proprio dopo questa prova Cray e i suoi “ragazzi” si lanciano in un tour mondiale che conduce pure alla pubblicazione di un bellissimo Live from Across the Pond, registrato alla pregiata Royal Albert Hall, ove alcune tracce presenti in Twenty la fanno da padrone. “I’m Walkin” è ad esempio una di queste, e piace per l’andatura soul blues, la chitarra solida e il potente Hammond organ di Pugh.
Tutte le composizioni sono comunque meritevoli, danno quel senso di compattezza pur mantenendo ognuna la sua diversità. Robert Cray è un tipo che può competere, con il dovuto rispetto, con i suoi mentori Albert Collins, Johnny Copeland e Albert King (infatti ha inciso un disco con i primi due e il terzo ha addirittura realizzato una cover della sua “Phone Booth”), però è anche riuscito a farsi ascoltare in radio con sonorità e ritmiche moderne, testi poco scontati, e a non rimanere in modo autoreferenziale rinchiuso nella nicchia blues. “My Last Regret” conferma queste affermazioni con il suo groove lento e una melodia orecchiabile, incorniciati dal tintinnio del piano dell’onnipresente Pugh, con Cray che inizia a raccontare nel suo dolce falsetto la profonda delusione per la fine di una storia d’amore con frasi di fuoco, senza compromessi: “Voglio vederti bruciare fino in fondo, vedere le tue ceneri sparse su tutta la terra. Allora saprò che posso dimenticare il mio ultimo rimpianto.”
La voglia di stupire e offrire le varie sfaccettature dal punto di vista artistico si denotano nell’incedere bluesy e dai richiami gospel di “It Doesn’t Show”, poesia impressionistica che fa a meno della batteria, nella nostalgia a tinte quasi pop di “Fadin’Away” condita da languidi guitar solo (John Mayer si è ispirato a queste atmosfere per comporre alcuni pezzi di Continuum) e negli arrangiamenti lussuosi di “I Know You Will”, un motivo vicino per fraseggi e refrain agli Steely Dan. ”That Ain’t Love” è invece l’unico pezzo che ricorda tanto cose già sentite nel repertorio dell’autore, mentre il rock soul di “Does It Really Matter” e la conclusiva “Two Steps from the End” in cui organo, batteria e basso abbracciano voce e chitarra, riportano tutto a posto, confermando la ventata di freschezza e innovazione all’interno di Twenty.
La vita artistica di Robert Cray prosegue di gran lena fino ad oggi per merito di un’intensa attività dal vivo e di lavori da ricordare come This Time (2009), ove si ricongiunge con il bassista Richard Cousins, membro storico della band, In My Soul (2014) e That’s What I Heard(2020). Questi ultimi vedono la partecipazione di quel mago di Steve Jordan, incrociato agli inizi del successo durante le sessioni tenutesi nell’ottobre 1986 per il film Hail! Hail! Rock ‘n’ Roll, monumentale documentario dedicato a Chuck Berry. Batterista, compositore e produttore, Jordan ha contribuito a mantenere sempre accesa la fiammella dell’ispirazione e della curiosità a Cray, quest’anno impegnato in un tour di ampio respiro che ha recentemente toccato pure l’Italia e proseguirà negli Stati Uniti.