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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
30/11/2017
Art Ensemble Of Chicago
Tutti i luoghi di un palco
Con loro si conclude il lungo viaggio di ritorno alle origini che il jazz intraprese dalla fine degli anni ’50. Figli di coloro che furono schiavi, ritornano nella terra degli antenati: i volti dipinti, i costumi, i nomi da battaglia: il tutto reso in modo così esplicito da essere a volte un espressionismo formale addirittura esagerato.

Chi sono quelle figure sacerdotali eppure metropolitane, che invadono il palco con i loro attrezzi musicali? Che cosa suonano? Cosa recitano? Perché il loro spettacolo sembra più un’evocazione che un concerto jazz? Perché questa loro bizzarra proposta appare più moderna e provocatoria oggi rispetto ai primi anni ’70?

Perché ascoltare ancora l’Art Ensemble of Chicago?

Perché non è solo musica; è pensiero libero, mai prevaricatore, mai passivo, con un seme di primordiale universalità africana che ci ricorda da dove veniamo.

È ancora vergine, come la foresta. Lo era nel 1970, lo è in gran parte ancora oggi. Perché è “free-bop” o meglio “be-free”, un’espressione che anche semanticamente coincide con la filosofia di fondo del gruppo. Un gruppo che sente la necessità di rendere esplicita sin dal nome la sua provenienza, Chicago, salvo poi dimostrare ben altro con una musica che è “del Mondo” e si espande come nella  radiazione evolutiva dell’Homo Erectus dalle valli del rift al Medio-oriente. E ritorno. Una musica che suona di casa tanto in Maxwell Street quanto al riparo della falaise de Bandiagara tra la gente Dogon del Mali.  Una timbrica sconfinata che va dalle piogge tropicali dei vibrafoni, ai clacson scortesi di una metropoli (post)moderna, fino ai flauti pastorali di tribù nomadi su grandi pianure. E allora forse è vero che “space is the place”, o meglio: gli spazi sono il luogo: tanti spazi diversi su un unico palco.

Ma chi su quel palco amministra e percorre questa moltitudine di spazi?

C’è Joseph Jarman, alto, in dashiki bianco, una sorta di Lester Young delle origini, con quel suo timbro profondo, il riverbero spesso flemmatico, echi addirittura cool. C’è Roscoe Mitchell, che veste dallo stesso sarto di Ornette Coleman, con tonalità sgargianti nella giacca e atonalità continue riversate su sheets of sounds in legato perpetuo, biscrome che ululano sui rami più alti di una jungla urbana antica eppure moderna, allo stesso tempo. C’è la tromba melodrammatica e parlante di Lester Bowie che ci ricorda l’alienazione di comunità metropolitane che vanno disgregandosi e lancia l’assalto alle trincee oscurantiste della lotta di razza.

Poi c’è la meraviglia della sezione ritmica di Malachi Favors e Don Moye, meravigliosa proprio perché non è una sezione ritmica. All’Art Ensemble non interessa la costruzione di prospetti verticali con fondamenta armoniche e pilastri ritmici. Il gruppo disegna al contrario ampi paesaggi di spazi aperti, estesi, wide. Don e Malachi definiscono semplicemente dei campi d’intervento, come due coordinate geometriche sul piano; funzionano come le linee scure in un quadro di Mondrian: delimitano settori cromatici pur essendo parte integrante dell’opera. Determinano un “ritmo” pur essendo parte integrante della melodia e mai sottoposti ad essa.

Poi c’è il leader; che in realtà manca. Ognuno conta uno, nessuno conduce, nessuno è condotto. E, nonostante tutto, l’Art Ensemble non è solo un anarchico collettivo free. Suona musica “scritta”, composta, nel senso stretto del termine, ma che si sviluppa su di un copione che è anche, esplicitamente teatrale. La scena è importante come la proposta sonora: ed è una scena ricolma e ridondante di oggetti musicali, di “piccoli strumenti”, in cui i cavi dei microfoni e le spie degli amplificatori si intrecciano a strumenti antichi e improbabili; centinaia di percussioni che sono come giochi di costruzione per bambini curiosi, che nelle mani dei componenti del gruppo diventano mediatori musicali per elaborare tappeti percussivi ad libitum, tessuti poliritmici sgargianti che fanno dei cinque musicisti non solo dei performer ma veramente degli officianti.

Con loro si conclude il lungo viaggio di ritorno alle origini che il jazz intraprese dalla fine degli anni ’50. Figli di coloro che furono schiavi, ritornano nella terra degli antenati: i volti dipinti, i costumi, i nomi da battaglia: il tutto reso in modo così esplicito da essere a volte un espressionismo formale addirittura esagerato.

Perché considerare questa musica moderna e non il relitto di addirittura due distinti passati? Uno lontanissimo, che inizia con l’istituzione della musica percussiva come elemento fondante per il “rito”; l’altro più recente, che riconduce agli anni ’70 del jazz con tutta la crisi dei generi classici e la controversa adozione dell’elettrificazione in una fusion di generi assai differenti.

A ben guardare, in un momento di frenetica innovazione, l’ Art Ensemble non è poi tanto diversa da un combo be-bop mischiato ad una festante marching band con coscienza di razza, il tutto aggiornato agli anni delle Black Panther e del long playing a 33 giri. Senza occhiali in corno e baschi neri, ma con una inconfondibile esteriorità equatoriale, si concedono, rispetto al jazz degli anni ’40, una maggiore elasticità armonica, una sconfinata fantasia timbrica e una evidente propensione al brano esteso, alla suite, al flusso continuo. Restii al 45 giri quanto, si direbbe, alla sala d’incisione (molti dei loro grandi capolavori su disco sono dei live), la loro musica può essere ruggente, lungamente percussiva, con battiti che non sono beat ma un vero e proprio linguaggio comunicativo. Può essere anche spaventosa e cacofonica. Ma mai superficiale né banalmente improvvisata o disordinatamente caotica. Rimane sempre educata, in fondo, non volgare, forse meno di rottura rispetto a Coleman o Cecil Taylor, spoglia dell’astro-filosofia di Sun Ra; non si fa mancare neppure un certo gusto retrò nelle parti d’assieme, come una vecchia big band in crociera su oceani caldi. Ma è sempre solida, addirittura rigorosa.

Recuperando tanta tradizione antica e “religiosa”, il loro spettacolo diventa rito. Giorno di festa. E come ogni giorno di festa la loro performance comporta la “sospensione del tempo” come flusso. Nel giorno di festa, tutto si ferma. Durante le loro esibizioni le lancette non battono. Esiste solamente quell’ampia, enorme dimensione spaziale che i cinque sacerdoti riescono ad evocare. Un afflato di intensa spiritualità in tempi fin troppo materiali.

E se la loro musica è  figlia di un momento sociale e culturale talmente peculiare che, ad un primo ascolto, si faticano ad immaginare Jarman, Mitchell & Co. attori, anche solo su disco, degli anni 2000, la loro idea è così creativa e multiforme da essere ancora vergine. Vergine per l’ascoltatore, vergine ancora per il critico. Vergine soprattutto per il grande pubblico.

Così da essere riproponibile ora con la stessa freschezza e la stessa originalità di un tempo.

"Please take this music as far inside yourselves as the musicians have gone inside themselves to present it to you, and we can begin then to complete the term the music has established for itself. Let it be a BAPTIZUM,  as it was for the people who got it direct that afternoon in Ann Arbor, September 9th. 1972, sitting under the music of the Art Enesemble of Chicago in the sun. Let it be whatever it wants to be, let it do whatever it wants to do to you - let it wash over you and  be your BAPTIZUM too, as it was that say for so many of us, and rise up and out of it as far as you can go."

John Sinclair – Note all’edizione originale di BAPTIZUM

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IMMAGINI

The Art Ensemble of Chicago  - The Third Decade - 1984

Mondrian - Composition A - 1920

Max  Ernst  - La Foresta Imbalsamata - 1933