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REVIEWSLE RECENSIONI
19/06/2019
Neil Young + Stray Gators
Tuscaloosa
Tuscaloosa non è certo il miglior live uscito dagli immensi archivi di Young, eppure, nonostante le esecuzioni abbiamo una messa a fuoco non sempre centrata, le undici canzoni in scaletta vibrano di un’intensità spigolosa, pungente, quasi selvaggia

Gli archivi di Neil Young sembrano davvero un pozzo senza fine da cui emergono costantemente autentiche gemme che fanno la felicità di milioni di fan sparsi in tutto il mondo. Ci ha abituati davvero bene, zio Neil, e non ci fa mancare proprio nulla. Così, dopo Songs For Judy, uscito a novembre del 2018, non solo il canadese ha annunciato le lavorazioni di un nuovo album in studio con i Crazy Horse, ma lancia sul mercato anche Tuscaloosa, nuova gemma live pescata dal suo glorioso passato.

Il disco è composto da undici tracce registrate la sera del 5 febbraio 1973 all’università di Tuscaloosa (Alabama), in un momento in cui la notorietà di Young, anche in virtù del best seller Harvest, pubblicato esattamente un anno prima, era altissima. Tuscaloosa, però, non contiene tutto il concerto: alcune canzoni, pare, non furono proprio registrate, altre, invece, erano troppo imperfette per la pubblicazione. E ciò sembra plausibile, visto che, anche i brani in scaletta, a voler essere perfezionisti, palesano evidenti sbavature che, però, nulla tolgono a uno show con momenti davvero intensi e vibranti.

Ci sono brani che a fine 1973 confluiranno in Time Fades Away (il live di inediti che Young ricusò per lungo tempo, perché di scarsa qualità audio e perché foriero di brutti ricordi legati all’abuso di droghe e alcol), due brani che compariranno addirittura in Tonight’s The Night (disco registrato quell’anno ma pubblicato solo nel 1975), la title track da After The Gold Rush e, ovviamente, alcuni high lights dal vendutissimo Harvest.

Il set è diviso in due parti, la prima acustica, con Neil in solitaria a eseguire Here We Are In The Years (dall’omonimo debutto del 1968) e After The Gold Rush, e poi con gli Stray Gators, per un filotto di super classici (Out On The Weekend, Harvest, Old Man, Heart Of Gold), fra cui brilla un’intensa Out Of The Weekend, con la steel guitar di Ben Keith a cucire la melodia sottotraccia.

La seconda parte, invece, è elettrica e ispida, e trasuda tutta l’immediatezza e l’imperfezione del live act: Time Fades Away, la rozza e potente New Mama (nell’aria, l’elettricità dei Crazy Horse) e in chiusura una crepuscolare Don’t Be Denied, sono esecuzioni un po' sgualcite ma di grande effetto emotivo.

La migliore del lotto, a parere di chi scrive, risulta Alabama, cantata proprio nello stato da cui la canzone prende il nome (tra l’altro, tristemente famoso in questi giorni, per la promulgazione di leggi dal sapore medioevale), davanti a un pubblico, di cui sarebbe stato belle vedere l’espressione del volto, mentre Neil cantava i versi: “I’m from a new land/ I come to you and see all this ruin”.

Tuscaloosa non è certo il miglior live uscito dagli immensi archivi di Young, eppure, nonostante le esecuzioni abbiamo una messa a fuoco non sempre centrata, le undici canzoni in scaletta vibrano di un’intensità spigolosa, pungente, quasi selvaggia. Così, a prescindere da una qualità non eccelsa, questo live resta comunque una vivida testimonianza di un delicato momento della carriera del canadese: il successo, le dipendenze e la trilogia del dolore che sta per bussare alla porta. Il fuoco brucia, talvolta, divampa, e lo possiamo ascoltare mentre crepita, nelle nostre orecchie e sulla pelle. Imperfetto e grezzo, comunque Neil Young.


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