Ho visto Sohn dal vivo per la prima volta all’inizio del 2017: Rennen, il suo secondo disco, era uscito da poco e l’etichetta “New Soul” era all’epoca ancora relativamente nuova, trainata da un James Blake il cui omonimo esordio aveva svolto un ruolo seminale nel plasmare una tendenza.
Da allora sembra trascorsa un’era geologica, perché l’accelerazione percettiva di questi ultimi anni è stata più forte che mai. Certe contaminazioni sonore non sono più una novità (ammesso che lo fossero mai state anche in precedenza) e soprattutto uno degli artisti più promettenti di quel lotto ha pensato bene di eclissarsi a tempo indeterminato. Scommessa coraggiosa, in un momento storico in cui se non pubblichi un singolo al mese per la maggior parte delle persone non esisti. Ma più che una scelta, si è trattato di obbedire alla realtà, nello specifico ad un crollo nervoso sopraggiunto a metà del tour di Rennen e, in seguito a questo, l’accorgersi che tutto quello che aveva fatto finora aveva raggiunto una data di scadenza; il sentirsi addosso l’urgenza di ripartire, di trovare una più autentica dimensione di sé, lo ha portato a trasferirsi a Barcellona e successivamente a spostarsi fuori città, nel mezzo della foresta. Rallentare, distaccarsi dal centro dell’azione, come unico modo per tornare ad essere finalmente creativi.
Trust è arrivato dopo un periodo di pausa che avrebbe annichilito la carriera di qualunque artista. Ma forse è proprio questo il modo giusto di essere, in una realtà che obbliga chiunque a conformarsi a criteri performativi: fare quel che si vuole fare, senza badare a calcoli e conseguenze. Lo ha spiegato lui stesso in una bellissima intervista rilasciata a Nicholas David Altea e pubblicata su Rumore di questo mese: “Non sono la stessa persona che ero dieci anni fa. Mi sono piaciute moltissimo le esperienze che ho fatto in questi ultimi dieci anni e ringrazio di averle fatte. Ma ora non fingo di essere cool a tutti i costi. Forse ho capito come sono davvero: prima ero avvolto da un alone oscuro, suonavo al buio col cappuccio e con il cappello senza mai parlare col pubblico e senza rivelare nulla della mia personalità. Ora penso ‘Va bene, andiamo!’”.
È un disco “di resa”, questo Trust, lo ha detto lui stesso. Cosa significhi davvero lo si capisce solo ascoltandolo. Se Rennen suonava pieno, nervoso, pervaso da un’urgenza di spaccare il mondo, questo appare invece pacato ed essenziale sin dalle prime note.
C’è stato indubbiamente un lavoro di asciugatura del songwriting, con le canzoni ridotte al loro nucleo essenziale, la voce in primo piano e pochi elementi di accompagnamento, una produzione che scarnifica volutamente e permette all’ascoltatore di scrutare nel cuore dell’artista.
In queste nove canzoni Christopher Michael Taylor racconta il suo passato, brevi istantanee del periodo passato in Austria, ricorda quelli che sembrano essere amori perduti, si identifica con le tre dimensioni del tempo provando a tirare bilanci e ad invocare una redenzione.
Lo fa rinunciando, almeno in apparenza, alla matrice originaria del proprio sound (sebbene nel beat oppressivo di “M.I.A.” e nelle sue cupe linee vocali permanga qualcosa del lavoro precedente; stessa cosa per “Truce”, densa di groove, ritmo ipnotico e quasi jazzato) ed orientandosi più spesso verso una dimensione Folktronica che possiede più di un punto di contatto col repertorio di Bon Iver. È ciò che forse potrebbe non piacere ai vecchi fan, ma è indubbio che sia proprio da qui che vengano le cose migliori del disco: “Figureskating, Neusiedlersee” è impostata sulla chitarra acustica e ha un ritornello che potrebbe tranquillamente essere uscito da For Emma…. La valorizza anche un testo denso di suggestioni emotive, tra rimpianto di quel che c’è stato e desiderio di tenersi stretti i ricordi per meglio definire il presente, il tutto espresso attraverso immagini di grande efficacia, che ne denotano la maturazione anche come paroliere (“There’s a crack in the ice where I skated your name”).
“Riverbank”, che a mio parere è il punto più alto dell’intero lavoro, è invece incentrata sul piano e suona quasi come una preghiera, una domanda di significato e allo stesso tempo una gemma di bellezza assoluta, per come riesce ad esprimere l’epica dell’esistenza elevando al massimo i soliti dettami dell’Alt Folk.
È un lavoro spontaneo, per quanto abbia avuto una gestazione lunga, ma riflette allo stesso tempo una cura maniacale dei dettagli e un affinamento notevole della scrittura. Bellissimo il suono secco della batteria, il beat spesso asciutto, la non rinuncia ad una certa divagazione elettronica (notevoli le code di “Basis” e “Truce”), l’utilizzo brillante e consapevole del falsetto.
Pochi elementi, dunque, ma tutto perfettamente incastrato, tutto esattamente dove dev’essere, scaletta senza riempitivi, canzoni che sono una più bella dell’altra e che sfociano nella suggestiva chiusura di “Caravel”: piano e voce, atmosfera crepuscolare, l’intenzione di rimanere nell’istante e affrontare la vita, nonostante tutto (“It’s hard to know if you’re going to stay/But I’m never going to walk away”).
Senza dubbio si continuerà a parlare di New Soul e di contaminazioni tra Black Music ed Elettronica: oggi però Sohn, che pure non si è lasciato nulla alle spalle, è un artista a sé, non più definibile solamente con il genere che suona. Ulteriore motivo per cui Trust non deve essere per nulla sottovalutato.