Ad un primo ascolto non può che emergere quanto la proposta di PM Warson sia tutto sommato “standard”, poggiandosi su ritmiche o pattern strumentali tipici del genere e già portati alla ribalta in ambito più pop anche da Michael Bublé, per fare un esempio estremo.
La struttura delle sue canzoni non stravolge mai i cardini su cui il genere si basa da decenni e i pattern armonici adottano prevalentemente la tipica alternanza armonica blues I-IV-V, girati come vogliamo ma pur sempre loro. Ci sono poi dei momenti in cui Warson prova a creare qualcosa di nuovo, e di solito corrisponde ad un punto del ritornello che va ad appoggiare su un accordo meno canonico del solito, per poi andare a sfociare in uno special, in un nuovo giro nettamente diverso, ed a quel punto sì, c’è un cambio.
Mentre cerco di capire nel dettaglio questa forma di scrittura, comunque piacevole, noto l’aspetto sonoro: curato, il giusto ambientale che piace al sottoscritto. E allora la domanda diventa: fino a che punto è necessario che vi sia un’incognita o una novità per poter caratterizzare positivamente il disco? Il suono può essere di per se stesso un’arma incredibilmente a proprio favore.
Ciò che arriva all’orecchio è una certa somiglianza, almeno nella forma, all’operazione sonora che è stata riservata ad Amy Winehouse con Back to black, dove una produzione ad ampio raggio e di altissimo livello è riuscita a preparare un terreno vasto e totalmente a disposizione di Amy, con dei risultati evidentemente stratosferici.
Vi sono però tre differenze alquanto spietate ed evidenti a sfavore del nostro: la scrittura musicale non sempre all’altezza; l’interpretazione vocale non totalmente interessante e carismatica da giustificare un ruolo del genere; una produzione di livello totalmente differente. Stiamo parlando di autoproduzione in questo caso, siamo chiari, anche se di autoproduzione di livello, con idee sonore interessantissime, come la pasta vocale satura ed insolitamente “indipendente” rispetto all’abitudine del genere. L’operazione, però, nonostante sia di qualità, non svetta e non fa gridare al miracolo.
In ogni caso, alla resa dei conti, il risultato finale è pieno di leggerezza e piacevolezza, le due caratteristiche vincitrici di questo disco fresco e strappa-sorriso.
Due dei più riusciti esempi in tal senso, oltre alla title track “True story”, sono “In conversation” e “Say the word”.
Alla fine, anche se non la formula non è innovativa, la formazione voce, chitarra, contrabbasso e batteria, oltre a due sezioni (corali con voci femminili ed orchestrali) fa sempre il suo mestiere.