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REVIEWSLE RECENSIONI
18/11/2022
A-ha
True North
Dopo sette anni di assenza, gli a-ha tornano in scena con un disco di pop orchestrale, lussureggiante negli arrangiamenti, carico di pathos e melodie cristalline.

In un anno che ha visto il ritorno in grande stile di alcune band che avevano segnato indelebilmente la musica degli anni ’80 (Tears For Fears, The Cult, etc), compaiono a sorpresa anche i norvegesi A-ha, dopo uno iato durato sette anni, intervallato solo dallo splendido Mtv Unplugged Summer Solstice (2017).

La band, composta Pål Waaktaar-Savoy (chitarra), Magne Furuholmen (tastiere/chitarra) e Morten Harket (voce), non ha mai smesso, in realtà, di produrre ottima musica, anche se, a onor del vero, scemata l’eco mediatica degli anni d’oro di Hunting High And Low (1985) e Scoundrel Days (1986), è un po’ scomparsa dai radar, assestandosi nelle retrovie del panorama musicale e continuando a mietere successi solo in patria. Gli A-ha, nel corso dei decenni, hanno, poi, cambiato pelle, trasformando il synth pop degli esordi in un pop adulto e sofisticato, levigato da una maestria tecnica cresciuta di disco in disco, e innervato da quella vena malinconica, che da sempre ha dato calore a queste canzoni concepite e create nelle fredde terre del nord.

E proprio True North si intitola quest’ultima fatica, registrata a Bodø, un comune nella contea di Nordland, in Norvegia, a soli 90 chilometri dal Polo Nord, insieme alla Norwegian Arctic Philharmonic, la vera protagonista di un disco che, come detto, è lontano anni luce da quel suono, cito per tutte "Take On Me", che aveva loro aperto la strada della fama planetaria. True North, meglio precisarlo subito, è un lavoro che va ascoltato tante volte. Non perché sia un album particolarmente complesso, ma perché è necessario entrare profondamente in un mood agli antipodi rispetto a quello amato dai fan della prima ora.  I primi ascolti, infatti, posso essere spiazzanti e lasciare un senso di fastidio per una produzione esageratamente sovraesposta, e arrangiamenti che, al primo impatto, suonano stucchevoli in modo esagerato.

La percezione iniziale, insomma, può essere disorientante: da un lato, un pugno di canzoni che rivelano la consueta maestria della band nel creare melodie immediatamente assimilabili e partiture eleganti, che si dipanano sulla voce di velluto di Morten Harket, il cui timbro, meno brillante di un tempo, si è fatto però caldo, morbido e avvolgente; dall’altro, arrangiamenti, che sfoggiano un profluvio di violini, fiati e tastiere, e che sembrano togliere slancio ai brani in scaletta, appesantendoli e offuscando una bellezza che, spogliata d’orpelli, sarebbe risuonata cristallina.

Poi, dopo qualche ascolto, le cose cambiano e ci si abbandona alla rigogliosa pienezza di questo pop orchestrale, coerente per tutta la durata del disco. Si comprende, cioè, che le dodici canzoni in scaletta possiedono un’anima che in una veste diversa non sarebbe mai emersa. Così, il disco, lentamente, s’insinua sotto pelle, ed emoziona, svelando le sue trame sonore articolate, eleganti, ricche di suggestioni emotive. Anche perché True North, pur nella sua coerenza espositiva, testimonia di un gruppo capace di declinare la materia con accenti diversi, coraggiosa nell’evitare citazioni autoreferenziali, addirittura ardita nello sviluppare idee, che nessun fan della prima ora avrebbe mai immaginato.

La scaletta è aperta dal singolo "I’m In" ed è subito un tuffo al cuore. Questo è il brano più lineare del lotto, la melodia è semplice e si canticchia fin da subito; eppure, il pathos è palpabile, la malinconia stringe la gola, e il falsetto delicato di Harket sfiora il cuore come una carezza. Le cose già cambiano con "Hunter In The Hills", la vera chiave di lettura dell’album, il cui scintillante abito orchestrale chiama in causa addirittura Burt Bacharach, tanto che verrebbe voglia di giocare con le parole e definirlo un brano alla Bacharaca-ha. Un vero e proprio gioiello di melodia, incastonato in un’intricata trama sonora in cui confluiscono lo scintillio dei fiati, il velluto degli archi e il liquido srotolarsi dei sintetizzatori.

Lo stesso approccio orchestrale eccita i languori della malinconicissima "Bumblebee", una di quelle canzoni che a ogni ascolto svela qualcosa di nuovo, una suggestione, un suono che era sfuggito, un palpito del cuore, e dona leggerezza alla conclusiva "Oh My Word", una soffice ballata, ingentilita da poche note di pianoforte e dalla voce appassionata di Harket, in abiti da crooner (se prima cannibalizzava le canzoni, ora sembra quasi entrarvi in punta di piedi. E lo fa con una classe immensa).

Come si diceva poc’anzi, pur nella sua coerenza formale, il disco risulta composito nella declinazione della lingua pop, offrendo altre inaspettate gemme, come la salmodiante "Forrest For The Trees", che sembra uscita da un disco di Morrissey, la ballata "Bluest of Blue", che si accende di colori in un intreccio vocale che riporta la memoria ai Beach Boys, o gli echi synth pop che emergono nel repentino scatto dance di "Make Me Understand". E alla fine, si può perdonare anche l’eccesso zuccherino del secondo singolo "You Have What I Takes", perché la melodia è talmente centrata, che tutto il resto passa in secondo piano.

True North è un disco che va assaporato lentamente, necessita tempo per entrare in circolo e, superato un primo impatto che può infastidire a causa del rigoglioso apparato sonoro, finisce per conquistare grazie a un susseguirsi di melodie tutte risplendenti. E’ un disco pop, è mainstream ed è anche un po' ruffiano, certo. Tuttavia, tanto di cappello a una band che è stata in grado di rigenerarsi, evitando di guardarsi alle spalle, per cercare il compiacimento onanista dell’autocitazione. Ascoltatelo e riascoltatelo, perché ve ne innamorerete.