Nic Pizzolatto con True detective trova un'ottima via all'antologico. Tre stagioni molto riuscite, almeno due non prive di difetti ma sempre di qualità alta, un percorso che seppur slegato nelle sue annate (con rimandi tra la terza e la prima a creare un universo condiviso), che presenta una coesione di temi e strutture - anche di stile se vogliamo - a collegare i tre segmenti del progetto senza che questi perdano la loro propria personalità e le caratteristiche intrinseche di ogni singola stagione.
È nel complesso un bel viaggio quello tra le vite e i casi di questi detective, un viaggio che anche nella seconda stagione, la più vituperata e senza dubbio meritevole di riscatto, che affascina per una narrazione densa, mutevole e capace di focalizzarsi di volta in volta su aspetti diversi, in parte anche per assecondare i voleri di un pubblico esigente fe orse troppo ben abituato da quella prima e imprescindibile annata che da subito ha lanciato la serie nell'empireo della serialità moderna.
Dopo aver imbastito una seconda stagione in fretta e furia forse proprio per soddisfare e rilanciare il successo di pubblico ottenuto con il folgorante esordio, per questa nuova indagine la produzione si prende tutto il tempo necessario, passano quattro anni tra le peripezie di Colin Farrell e Rachel McAdams e quelle di Mahershala Ali e Stephen Dorff, nuovi e al momento ultimi protagonisti di True detective, anche se ormai sembrano confermate le voci di un nuovo ritorno per lo show con (si dice) Jodie Foster protagonista affiancata da un altro detective di cui non si conosce ancora l'interprete (sarà una seconda donna pare), l'ambientazione si sposterà dal sud degli Stati Uniti alla fredda Alaska, scelta che inserirebbe un ulteriore elemento di novità nella serie.
Per questa terza stagione si torna a un'ambientazione rurale: siamo nell'altopiano di Ozark, in quella parte di territorio che rientra nei confini dell'Arkansas, stato limitrofo alla Louisiana di Cole e Hart con la quale ha diverse caratteristiche in comune. Si ripercorrono le tappe di un caso datato 1980: in una cittadina di provincia due ragazzini, Will e Julie Purcell, escono in bici per andare a giocare da un compagno di scuola con il suo nuovo cucciolo. Passata l'ora del rientro il padre Tom (Scott McNairy), che cresce i due figli da solo in uno stato di povertà evidente, avvisa la polizia della scomparsa dei ragazzi, alla chiamata risponderanno i detective Wayne Hays (Mahershala Ali) e Roland West (Stephen Dorff).
Le ricerche partono ovviamente dalla famiglia, dal padre Tom e dalla madre Lucy (Mamie Gummer) ormai allontanatasi dal nucleo familiare e afflitta da diverse dipendenze, per poi allargarsi ai vicini e ai conoscenti, ai parenti come lo zio Dan (Michael Graziadei), ai ragazzi più grandi fino ad arrivare a quello che viene considerato l'emarginato della cittadina, Brett Woodard (Michael Greyeyes), un veterano della guerra in Vietnam di origini indiane (d'America) che gira per il circondario in cerca di rottami da rivendere.
Il caso, che presenta dei risvolti tragici fin da subito, verrà ripreso in seguito negli anni 90 dagli stessi due detective che se ne occuperanno praticamente per tutta la loro vita, è un Wayne Hays ormai vecchio infatti quello che tenta di ricostruire l'intera vicenda, a dispetto di una memoria che ormai gioca brutti scherzi a causa di una malattia in progressione, di fronte alle telecamere di un programma televisivo cercando di ottenere nuove informazioni, più recenti, proprio dalla giornalista che sta cercando di mettere insieme i pezzi dell'intera vicenda, un po' come ha fatto per tanti anni la moglie di Hays, l'insegnante e scrittrice Amelia Reardon (Carmen Ejogo).
Data la pioggia di critiche (immeritate) ricevute dalla seconda stagione di True detective, per la terza annata Nic Pizzolatto torna alle origini riprendendo molte atmosfere e diversi schemi della stagione d'esordio. Torna centrale la ricostruzione a posteriori, la vicenda è suddivisa in maniera netta su tre piani temporali pian piano rievocati dalle parole di Hays e West, c'è tantissima attenzione alla scrittura dei protagonisti, soprattutto in quella della figura del detective Hays, che oscura un poco il coprotagonista, il detective West, che diviene una sorta di comprimario di lusso del quale però c'è da dire che vengono lasciate velate alcune caratteristiche interessanti che dovrà essere lo spettatore a intuire, proprio come a un certo punto fa il partner Hays. Sono cose di cui non si parla apertamente, anche perché siamo tra gli Ottanta e i Novanta in uno degli stati del sud degli U.S.A., non proprio la più avanzata delle frontiere per quel che riguarda l'apertura mentale.
Torna l'attenzione per i luoghi, indubbiamente meno affascinanti di quelli della Louisiana di Hart e Cole, tornano anche le bambole, non quelle rituali ma i riferimenti al caso di Dora Lange vengono palesati in maniera chiara (anche se mi piacerebbe fare un controllo sulle date per vedere se le cose collimano); quell'odore di sovrannaturale non è nuovo, qui esplicitato nelle sensazioni di incontro tra i diversi piani temporali che Hays di quando in quando percepisce in maniera evidente.
Ciò che di più riuscito c'è in questa annata, al di là dell'indagine sul caso, che non è la cosa più interessante e che si chiude con una rivelazione finale che probabilmente deluderà più di uno spettatore, è proprio la figura del detective Hays che, grazie all'interpretazione superba di Ali e alla scrittura del personaggio, giganteggia su tutto il resto pur essendo un protagonista molto trattenuto, misurato, mai esplosivo, proiettato verso l'interno; un uomo molto diverso dall'irresistibile Rustin Cole della prima stagione, tanto per dirne una.
Non sono i classici eroi i protagonisti di True detective, Hays è un uomo irrisolto, che con la testa forse è rimasto in Vietnam e che non riesce a godere appieno nemmeno delle gioie che la vita gli presenta (la moglie, i figli), tormentato in vecchiaia da una malattia che sembra impedirgli di trovare una conclusione certa finanche a quel caso a cui ha dedicato gran parte della sua vita.
L'aspetto sul quale pecca un po' questa stagione è quello del ritmo, la progressione tra le varie puntate manca un po' di mordente, la sensazione è che la narrazione abbia un'ottimo spessore, ottime trovate in alcuni particolari, nei rapporti tra i personaggi, ma che manchi di pepe nel nodo centrale, quello della ricostruzione dei fatti, pochissime le sequenze dinamiche, una sola di reale impatto.
Consigliato? Certamente si, non soddisfa appieno come l'anno uno, paragone ormai scomodo e ingombrante, ma il lavoro che c'è dietro la stagione si vede tutto, magari meno adatto per chi cerca solo un semplice poliziesco (qui siamo su altre lande, più complesse, brulle e decadenti, meno immediate) ma più appagante per i palati fini che sapranno apprezzare.