Il gruppo milanese Le Masque, nato su impulso di Edgardo Moia-Cellerino[1], trae il proprio nome dall’omonima poesia di Baudelaire. In tale composizione il parigino descrive una statua di donna, opera dello scultore Ernest Cristophe: ad un primo sguardo, dalla figura traspare un senso di pienezza ed eleganza: “La Voluttà mi chiama e l’amore mi incorona!”. Il volto è ridente, languido e beffardo. Ma tale trionfo si rivela, ad un più attento esame, ingannevole: il viso squisito di prima non è che una maschera; il suo vero aspetto è stravolto dalle lacrime dell’angoscia e dell’affanno di vivere (Domani, ahimé! Bisognerà vivere ancora!/Domani, e poi domani, e sempre!)[2]. Può darsi che la dicotomia tra vita quotidiana e Arte insita nel poema (o forse la temperie malnata dell’espressionismo di Baudelaire) influenzarono il piccolo ensemble nella composizione del primo lavoro, Trouvailles pour comediennes (1983); questo, cantato in inglese, risente pesantemente della derivazione da modelli dark britannici, ma resta godibile grazie soprattutto all’elegante interpretazione à la David Sylvian di Cellerino che in “Ruins” e nel synth-pop di “Mother And Son” firma gli episodi più rimarchevoli.
Dopo l’EP The Happy Flock (1984), i Le Masque, con Colloquio (1986), abbandonano la lingua inglese e qualunque riferimento al potente simbolismo del Francese (peraltro, come detto, più vissuto a livello di suggestione che praticato) e rifuggono verso un’atmosfera crepuscolare e malinconica, già sottolineata dalla copertina, una stilizzazione delle Impressioni di Monet dominata dai toni violetti. Il delicato strumentale “Corpo di una donna”, “Dal diario di un soffiatore di vetro” e “La caduta del mascara” portano il gruppo sempre più verso i territori della canzone intimista, parva sed apta mihi: l’italiano evidentemente non è più fatto per i grandi spazi. Questo ripiegamento verso la consuetudine musicale, pur pregevole, viene però scosso dalla composizione finale, l’eponima “Colloquio”, una perla nera di eccezionale valore. Essa non è che la messa in musica della lirica La morte del poeta milanese Carlo Vallini (1885-1920), parte del più generale poema Un giorno, sorta di meditazione buddista sulla rinuncia alla vita[3]; essa è la presa d’atto del fallimento dell’uomo contemporaneo che ha subito la dannazione della verità: la letteratura non è che ipocrisia (l’artista è un mistificatore), i sentimenti accesi ed i valori eterni sono favole, la vita non è che una continua pena: non rimane che la rinuncia sino all’accettazione della rinuncia totale, la morte (“la materia riposa … rinunzia all’enorme fatica di dover essere unita”). Tuttavia anche l’unica salvezza subisce uno scacco: “la nostra materia/che soffre ed invoca l’oblio/ [grida] pur sempre: Non voglio/morire!”. Impossibilitato a vivere pienamente (“Tarderà molto a finire/questa ridicola farsa?/Io sento che fo da comparsa/e che non ho niente da dire.”), all’uomo si preclude anche la pace del Nulla. Leopardianamente, secondo Vallini, tutto è vano: “E’ vana l’arte. La sorte/vuol che ogni cosa sia vana/vuol che la vita sia vana/e che sia vana la morte”. Tastiere e voce sottolineano in crescendo questo tragico cul de sac metafisico che, concettualmente, è persino più disperato de I fiori del male.
Successivamente Cellerino si inoltrerà con sempre maggior sicurezza nell’ambito della canzone d’autore (vincerà un Premio Tenco) spogliando, però, la sua opera dai chiaroscuri che ne sancivano il fascino originario.
[1] Edgardo Moia Cellerino (voce, tastiere, chitarre); Tiberio Boncristiano (batteria); Marco Magistrali poi sostituito in Colloquio da Riccardo Caccia (violino, tastiere).
[2] Il tema della maschera ricorre ossessivamente nella letteratura francese ottocentesca, da Jean Lorrain a Guy de Maupassant.
[3] La prima poesia è, infatti, La leggenda del principe Siddharta.