“Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì una mattina di settembre dalla città per raggiungere la Fortezza Bastiani, sua prima destinazione. Si fece svegliare ch’era ancora notte e vestì per la prima volta la divisa di tenente. Come ebbe finito, al lume di una lampada a petrolio si guardò nello specchio, ma senza trovare la letizia che aveva sperato. (…) Era quello il giorno atteso da anni, il principio della sua vera vita. Pensava alle giornate squallide all’Accademia militare, si ricordò delle amare sere di studio quando sentiva fuori nelle vie passare la gente libera e presumibilmente felice; delle sveglie invernali nei cameroni gelati, dove ristagnava l’incubo delle punizioni”.
Inizia così Il deserto dei Tartari, probabilmente l’opera più famosa di Dino Buzzati, nonché autentica summa delle sue tematiche principali, quelle che, di fatto, non ha fatto altro che ripetere, seppur con declinazioni di volta in volta diverse, per tutto l’arco della sua narrativa. L’attesa indefessa di qualcosa che dovrà cambiarci la vita, che porrà fine alla monotonia di giorni sempre uguali, a un’esistenza decorosa ma priva di senso; si attende quel qualcosa per tutta la vita, si intuisce che esiste ma, alla fine dei conti, non arriverà mai. Oppure, è questo il dubbio che talora serpeggia, quel qualcosa era lì, a portata di mano, ma per distrazione o noncuranza non siamo stati in grado di riconoscerlo.
La vita scorre, senza che ce ne accorgiamo, tutti presi da occupazioni che ci sembrano importanti e in realtà non lo sono. Nel frattempo, giorno dopo giorno, gli istanti si consumano e ci si ritrova vecchi, senza avere costruito nulla di significativo; realizzando, oltretutto, che pur essendo costantemente circondati da altri esseri umani, alla fin fine siamo sempre soli, nessuno potrà mai capirci ed abbracciarci davvero.
Queste intuizioni sono alla base di Triste sbaglio sempre lontani, nuova fatica di Carlo Pinchetti e dei suoi Lowinsky, che dal romanzo dell’autore di Belluno prende non solo il titolo (sono due sintagmi liberamente accostati tratti da una delle pagine finali) ma anche lo stesso incipit, recitato da una voce rallentata ed effettata alla fine di “Nessuno si ricorderà di noi”. Si tratta comunque di una declinazione un po’ più positiva, perché l’ammissione disarmata che non esistono grandi scopi per cui vivere viene stemperata dalla gioia dei piccoli istanti, dalla felicità data da tutti quei brevi scampoli luminosi che la quotidianità è in grado di offrire.
In fin dei conti, se ci si pensa, i Lowinsky fanno esattamente questo: portano avanti la loro musica incuranti del successo commerciale, contenti solo di pubblicare le loro canzoni e di suonare dal vivo. Carlo Pinchetti ha resuscitato la sua creatura lo scorso anno, dopo la parentesi solista di Una meravigliosa bugia, e da allora i Lowinsky, con una line up diversa rispetto a quella che ha registrato Oggetti smarriti subito prima della pandemia, hanno incarnato soprattutto il contenitore nel quale si riversano suoi vari progetti musicali (dal vivo, infatti, c’è sempre spazio per incursioni nel materiale dei Finistère e delle sue cose da solo).
Questo nuovo EP (o “disco corto”, come lo ha definito lui) è un po’ la prosecuzione del discorso, una manciata di brani nuovi che sviluppano il discorso di cui sopra, col solito stile malinconico e disincantato che costituisce la cifra maggioritaria della scrittura di Pinchetti: “Grande niente e una giostra che non mi vuole” (chiaro omaggio, non solo nel titolo, ad Elliott Smith e alla sua “Ballad of Big Nothing”), “Nessuno si ricorderà di noi” e la cupa ed arpeggiata “Amphetamine Crown” sono quelle più vicine alla proposta dei Lowinsky: Indie Rock maturo e consapevole che si muove zigzagando tra Big Star e Bright Eyes. Poi c’è “Doppio gioco”, che avevamo già ascoltato sullo Split con Drew McConnell e il suo progetto parallelo Helsinki: una ballata intensa e melodicamente ineccepibile, con la voce di Linda Gandolfi a fare tutta la differenza. A tal proposito, la scelta di inserire in formazione la moglie ha pagato non poco, dando maggiore spessore alle voci, col risultato di valorizzare di più anche le melodie.
Con “Bottom of the Barrel”, recuperata da un progetto di reunion dei Daisy Chains che non si è mai concretizzato, torna la scrittura in inglese e le chitarre prendono a graffiare, in quello che è in tutto e per tutto un instant classic da manuale in odore di Lemonheads.
A chiudere arriva “Harakiri”, versione “naked” di quella “Seppuku” che compariva già su Oggetti smarriti. Atmosfera triste e rarefatta, un arrangiamento minimale dominato dal contrabbasso con archetto di Roberto Frassini Moneta, una resa decisamente superiore al brano originale.
Che i Lowinsky abbiano finalmente trovato la dimensione giusta per esprimersi al meglio lo si è visto anche dal vivo, nel concerto di presentazione che hanno tenuto all’Ink Club, nella loro Bergamo, pochi giorni dopo Natale. Volumi altissimi, chitarre sparate a mille, una resa dei brani molto più grezza ed energica, quasi al confine col Punk. Anche i pezzi vecchi, come “Coltelli”, “Lei” e “Macigno”, hanno beneficiato di questo nuovo vestito distorto e rumoroso, valorizzato da un gruppo finalmente coeso anche sul palco, col chitarrista Davide Tassetti a suo agio nel ricamare piacevoli fraseggi ritmici, e il nuovo batterista Giuseppe Ruocco, al suo debutto in questa formazione, a tenere alto il tiro.
Non lo troverete in nessuna classifica di fine anno, ma Triste sbaglio sempre lontani incarna alla perfezione quello spirito indipendente della musica che, almeno qui in Italia, andrebbe decisamente recuperato. Nota di merito alla produzione, straordinariamente nitida e pulita di Claudio Turco (Soviet Malpensa) che valorizza in pieno ogni momento di queste composizioni.
Photo credits: Anna Lisa Pinchetti