“…l’amore non vince nei racconti: perché i personaggi si lasciano vivere e non agiscono sulla vita. E a quel punto tutto può essere accettabile, se lasci che sia qualcun altro a decidere cosa sia giusto e cosa no”. (P. Valli)
Taglio la calotta cranica. Rovescio i pensieri che, cadendo sul tavolo, sporcano e schizzano ovunque e si mescolano, tra loro, col pane raffermo di ieri, con la polvere e con i riflessi della lampada. Un giudice mi puntò il dito contro quand’ero giovanotto e mi condannò per aver fumato la droga. Disse: ti sembra normale? Non sai che è vietato per legge? Ed io ho pensato ad Herbert Kappler, condannato per l’eccidio delle Fosse Ardeatine… non voglio usare questo per celebrare l’efficacia di un articolo, ma non si dimentichi, caro il giudice mio, che voi l’avete assolto per aver rispettato una legge che ha reso lecito UCCIDERE 320 persone. E se gli altri processati sono stati condannati non era per l’omicidio in sé ma per i modi, per il quanto e il come. Pensi che nella mia normalità, caro giudice, è criminale anche solo averlo pensato di uno. Ad ogni modo, Herbert Kappler è stato condannato all’ergastolo per averne uccise 15 in più… di vite, giusto per ricordarle il soggetto della frase. Questione di numeri, insomma, la legge lo sa bene. Quel che sia normale diviene dunque ad uso e consumo dell’ingranaggio, ora morale, ora industriale, ora umano… ora medico scientifico. Persino i clown hanno leggi tutte loro… che dire della fisica di Star Trek? Anche quelle sono leggi e sono anche ampiamente rispettate. I numeri… che da noi in Abruzzo, a guisa di morale, si vieta alla libertà di aversi non per giuste ragioni mediche ma per doverose uguaglianze numeriche. Che sono poi livelle politiche da dare in pasto all’estetica nazionale ma soprattutto al vociar di popolo. La livella… non quella di Totò, signor giudice. E la morale che ci sta bene su a spiegar tutto? Dove la troviamo? Beh, signor giudice, si costruisce con poche battute di buona favella.
Ecco. I numeri sono altre parole importanti amici miei.
Temo di doverlo dire ora: non so bene perché la redazione di Loudd stimi (ma stimate veramente?) quel poco che faccio, rovesciando sul tavolo i miei pensieri senza grazie e senza mestiere giornalistico. Ma grazie a loro ho re-imparato a fermare il mio tempo, a ragionare sul significato delle parole, a misurare in grandezza di polvere ogni momento prima di dare in pasto la mia parola ai tromboni della qualunque che fanno un rumore assordante dietro la porta. Non so se la direzione che prendo sia giusta o sbagliata… ma quanto meno è ragionata. Ed è in questo preciso tempo, fermo per giuste cause su cui sguazzano numeri e morali di cui approfittare, che leggo “Trilogia della distanza” edito da I libri di Gagarin: Pieralberto Balli, quello dei Santo Barbaro e che riscopro musicalmente oggi riascoltando con finissima curiosità e fascino anche il suo ultimo lavoro - “Numen” - mi regala forse 3 dei racconti più importanti che mi sia capitato di leggere fin qui. Beh, l’importanza io la misuro ma non in senso assoluto. Non in senso estetico e neanche per la levatura artistica (che neanche so ben riconoscere). Ma questo libercolo di poco più di 120 pagine ha la forza delle parole, quelle giuste, quelle che ti inchiodano fuori dalla giostra delle tante morali costruite ad arte e per l’arte della politica, parole che bruciano ogni abito di pezza e ogni targhetta lucente dove ricamare la nostra faccia… parole crude che cito testualmente, come ho già fatto in radio: “È un’arte sottile e sofisticata quella che trattiene i culi attaccati alle poltrone e, allo stesso tempo, li nutre di un terrore tossico che, entrando nelle vene, chiederà ogni giorno una nuova dose necessaria a placare il senso di dipendenza”.
Questo libro di una trilogia di racconti, firmata da Pieralberto Valli, pesa come pesano le pietre dentro le tasche o come pesano i vermi dentro le coscienze. Penso sia un libro importante e l’ho voluto sottolineare, a mio modo, sapendo che nell’era in cui i libri servono solo a far fighe le librerie da mostrare sui social, neanche le prime righe di quest’articolo verranno lette con attenzione. Forse…
Alla fine non è la verità la parola giusta: oggi sono soltanto i numeri. E il 3, caro Pieralberto, è un numero che mi piace tantissimo…
A proposito di Radio: una bella chiacchierata assieme a Pieralberto Valli l’ho avuta nella puntata radiofonica di “Cose da Difendere” andata in onda il 26 Novembre scorso. Su Radio Loudd c’è il podcast. Tante volte…
Parole importanti dentro questo libro di racconti. La parola: partiamo da qui. Quanto è importante la parola oggi? Anzi quanto è divenuta oggetto di violenza e di distorsione per i pubblici interessi?
Qualche mese fa, a un mercatino dell'usato, ho trovato un libro di F. Pohl; si intitola “La pubblicità è l'anima della guerra”. È del 1967, e questo mi permette di slegarmi dalla descrizione del presente. Per anni, almeno in certi ambienti alternativi, fidarsi della televisione o dei grandi giornali mainstream era considerato un atteggiamento superficiale. “Cerca informazioni alternative, confrontale, chiedi alle persone, non ti fidare di chi ha in mano il potere della grande informazione di massa”; così si diceva. La verità, se mai esiste, andava inseguita, braccata, cercata sotto i tappeti; ci sentivamo cercatori d'oro. Poi sono arrivati internet e i social, e quei minuscoli granelli di verità, già di per sé difficili da trovare, sono finiti in un mare più grande, sconfinato. Non so bene perché, ma mi viene in mente un'immagine di Borges: “Quando ero bambino mi meravigliavo sempre del fatto che le lettere di un libro chiuso non si mescolassero fino a perdersi, durante la notte”.
Una parola importante, anzi predominante è distanza. Oggi più che mai. Ma non voglio tanto parlare di distanza fisica. Parliamo invece di quella che c’è tra il pensiero e la reazione. Tra quel che ci viene detto e quel che alla fine decidiamo. Parliamo di una distanza tra la realtà e quella che ci costruiamo dentro…
Credo che la parola centrale sia proprio “realtà”. Cosa è reale? Come scegliamo quale realtà sia più reale tra le varie realtà che abbiamo davanti? La risposta, ovviamente, rimane nella soggettività di ciascuno di noi, ma il punto non è questo: il fatto è che demandiamo la scelta. Accettiamo che la realtà ci venga raccontata, spiegata e consegnata; ci nutriamo di cibo già masticato e digerito da altri. Non siamo elementi attivi, ma passivi. E in questa passività di approccio non c'è spazio per l'azione, e quindi per un'eventuale reazione. Per giungere a una decisione, qualunque essa sia, serve un atto volontario che agisca sulla realtà delle cose, a partire da noi stessi. Il primo vero distanziamento è quello che ci portiamo dentro, tra quello che potremmo sentire e quello che decidiamo di non sentire, tra quello che potremmo comprendere e quello che decidiamo di non comprendere. Serve un risveglio, cioè una riunificazione.
Mi colpisce tanto di come alla fine l’amore non vince. Nei tuoi racconti (anzi in particolare nel secondo e nel terzo) non è il bene ma il giusto a vincere. Non è il potere dell’uomo ma quello della legge. E vince anche sulla vita stessa… credo sia un passaggio importante…
Questo perché l'uomo ha dimenticato di avere un potere, anzi di avere “il” potere. Ed è proprio questo che nessuno ti racconterà mai: il potere è nelle tue mani, è lì da sempre, anche ora. Ciò che è giusto cambia con un battito di ciglia, ma il bene non si comporta così: è immutabile, è atemporale, è cristallizzato. Ma per accedere al bene bisogna uscire dalla bolla illusoria dentro la quale viviamo ed entrare nella vera realtà. Bisogna far cadere il velo che ci copre lo sguardo, bisogna superare la paura con cui veniamo nutriti. È molto faticoso, è un atto di coraggio, è una morte e una rinascita a nuova vita. Altrimenti il bene evapora e rimane la legge dell'uomo, e quella legge è spesso nemica dell'amore, proprio perché fasulla. Per questo l'amore non vince nei racconti: perché i personaggi si lasciano vivere e non agiscono sulla vita. E a quel punto tutto può essere accettabile, se lasci che sia qualcun altro a decidere cosa sia giusto e cosa no.
Altra parola importante: paura. Qui potrei lasciarti carta bianca. È drammatico vedere con quanta normalità misuriamo tutto con la paura. Nei tuoi racconti denunci a chiare lettere di come attraverso la paura si guidi l’andamento della nostra felicità… e non ci sono altre chiavi di lettura, penso…
No, in fondo è molto semplice. Senza capire quanto è potente la paura non si comprenderebbero molti eventi della storia. Ciò che colpisce, forse, è la facilità con la quale la nuova normalità sia stata accolta, accettata e difesa con il coltello tra i denti da gran parte dei cittadini. Il tempo di risposta allo stimolo è stato quasi istantaneo, anche da parte di molti di quelli che affollavano le piazze reclamando libertà solo qualche settimana prima. Ma torniamo al discorso di poco fa: la libertà usata come slogan è un semplice prodotto di mercato; è una scritta su una maglietta. Il giorno dopo ne arriva una nuova e te ne dimentichi. Fino a quando non usciremo da certe logiche servili continueremo a subire le scelte degli altri.
Non ci rendiamo conto, secondo me, che ci stanno trattando come semplice forza lavoro. In attesa di essere sostituiti definitivamente dalle macchine ci trattano come cose che, subito dopo aver svolto la loro funzione produttiva, possono essere riposte nei magazzini e spente fino al giorno dopo. Non è un caso che le limitazioni e i divieti seguano la giornata di lavoro: sei libero di andare a produrre, sei libero di consumare (da casa) ma non sei libero, in quanto umano, di dedicare tempo alla tua umanità, al tuo benessere, e di conseguenza alla tua felicità. In “Bolormaa”, Ferretti definiva la felicità “densamente spopolata”. Anche lui considera la felicità come un luogo da abitare, come un luogo sociale di incontro. Credo sia tempo di ripopolare la vita.
Amanti che si nascondono perché persino l’amore è fuorilegge. Persino lo stare assieme è contro la legge. Che poi gli amanti verranno puniti proprio dai loro stessi vicini… forse per rispetto delle leggi, forse per invidia… ma di sicuro l’applicazione della legge passa anche e soprattutto dalla denuncia dei nostri vicini. Che ovviamente è qualcosa anche di moralmente alto da un punto di vista civico e soprattutto generico. Ma nell’apocalisse che racconti secondo me significa altro… o sbaglio?
Da un certo punto di vista non credo che stiamo vivendo qualcosa di nuovo (di nuovo non c'è che ciò che è dimenticato); semplicemente siamo abituati a valutare il passato come qualcosa che non riguarda persone simili a noi, come qualcosa di astratto. Durante il ventennio le persone non erano impazzite, non in senso stretto. La percezione delle cose giustificava tutta una serie di misure che ne conseguivano facendole sembrare totalmente ragionevoli. Lo stesso per i regimi comunisti che per fortuna non abbiamo vissuto in prima persona.
Se la percezione che si crea è che il tuo vicino è un tuo potenziale nemico perché mette a repentaglio la tua sicurezza, la tua possibilità di esistere, tu ti comporterai di conseguenza e non ti sentirai disumano nel farlo, ma totalmente giustificato. I riferimenti culturali, sociali e storici che hai assimilato rendono quella disumanità totalmente accettabile, quasi un segno di sana obbedienza civile. Quello che ci sta accadendo segue la stessa dinamica: si creano valori e disvalori, comportamenti virtuosi e delittuosi, comportamenti accettabili e deprecabili e a quel punto sarà la cittadinanza ad auto-normarsi e a pattugliare le strade. Solo dopo, molto dopo, arriverà la sanzione del potere. Ma a quel punto sarà una sanzione giusta, comunemente ammissibile, come inseguire con un elicottero un anziano che passeggia.
Ecco che torna sempre questa parola importante: legge. Per te che cos’è la legge?
Torniamo al discorso fatto poco fa. Ci sono tanti tipi di legge: legge morale, legge naturale, legge divina, legge umana. La legge è l'espressione più evidente di un'epoca. Anche per questo proviamo orrore e vergogna per le leggi razziali, perché ci ricordano che in un paese civile, meno di un secolo fa, si accettarono come normali delle aberrazioni disumane. E proviamo vergogna perché quella disumanità mette in mezzo anche i nostri nonni e bisnonni e, di conseguenza, attraverso le genealogie, arriva dritto al nostro petto, qui nel 2020. Non vorrei che i nostri nipoti abbiano lo stesso senso di vergogna nei nostri confronti tra qualche decennio. Non lo dico per creare un parallelismo forzato tra due epoche diverse e distanti, ma perché, oggi come allora, la scelta più comune è pensare che la vita non ci riguardi.
Altra parola importante: diversità. Ho avuto modo di notare, tramite social anche e soprattutto, come moltissime persone che purtroppo hanno contratto il Covid facciano coming out pubblicamente dicendo ad alta voce che non bisogna vergognarsene anzi può essere d’aiuto. Certamente la frase oltre che vera è condivisibile. Ma io rifletto sul fatto che sia nato il bisogno di dirlo. Cioè: il vero problema è che frasi del genere celebrano sfacciatamente il fatto che nasca una discriminazione da fronteggiare con coraggio nei confronti di chi ha il Covid (in questo caso). Non c’è limite all’assurdo. Nel tuo libro la diversità passa anche da questo?
Qui entriamo nel campo dello story-telling, e tutto questo periodo si gioca su questo piano. Non siamo nella realtà, ma nella narrazione di una realtà. Onestamente non ho notato quello che descrivi, ma posso immaginare quello che intendi. Di certo se carichi così pesantemente qualcosa poi quel sentimento si alimenta e va fuori controllo; pensa, ad esempio, alle prime pubblicità pseudo-informative sull'Aids negli anni 80 (la sagoma che illumina tutte quelle con cui entra in contatto). In questo contesto si inserisce questo modo schizofrenico di parlare di scienza, questo gioco a sovraccaricare emotivamente le questioni, uscendo totalmente da un sano pensiero scientifico. I medici eroi, i camion che sfilano, le scritte e i canti sui balconi; ecco, questo clima da guerra perenne crea eroi e nemici, idoli nuovi e fiammanti di un nuovo culto che cancella matrimoni e funerali, e sposta l'orario di nascita di Gesù Cristo. Le informazioni generano percezioni; le percezioni generano comportamenti. Alla fine tutto ritorna alla fonte: cosa decidiamo di raccontare, e come.
Potrei andare avanti ad oltranza. Mi piace ripetere con te un concetto fortissimo che arriva dall’ultimo racconto. Nel giorno del suo settantesimo compleanno, il protagonista lascia i parenti durante la festa perché, per legge sia chiaro, deve andare a morire in ospedale. Morte programmata per tutti a 70 anni. Per legge. Sembra ma non è fantascienza…
Vuole essere una provocazione, ovviamente, ma il presupposto della fantascienza è spingersi oltre il metro di misura del presente, per quanto assurdo possa sembrare. Parlare di fecondazione artificiale qualche decennio fa poteva sembrare fantascienza; parlare di manipolazione genetica ci avrebbe subito riportato agli incubi eugenetici del nazismo. Ciò che è possibile si scontra quotidianamente con ciò che riteniamo giusto, ma anche la morale non è qualcosa di stabile, si sposta costantemente, un millimetro alla volta, come i continenti sulla Terra. Esiste già, soprattutto negli Usa, un dibattito sull'età oltre la quale la vita diventa più un peso che un'opportunità. Ma questo accade perché la vita sta perdendo ogni giorno di più il proprio senso sacrale di dono. È il sacro che sta svanendo, la nostra dimensione spirituale, verticale. Se togli quel paletto, allora tutto è possibile, anche decidere che gli uomini improduttivi siano per legge destinati al macero.
Direi che sia giunto il momento di chiudere. Altra parola importante: verità. Non siamo medici, scienziati, non ci sostituiamo a loro e di certo non parliamo di virus. Ma che sia il Covid o altro poco importa. Alla radice, ed è una radice vecchia di generazioni, c’è il problema di capire quanto la verità sia oggetto di manipolazione. E anche in questo, “Trilogia della distanza” spara ad altezza uomo...
Io non ho verità, e nemmeno le voglio. Non sono cose che competono alla nostra dimensione umana. Al tempo stesso detesto le menzogne, perché le menzogne hanno sempre uno scopo, e quello scopo raramente è legato al bene. Ciò che colpisce è che, sin da subito, si sono creati dei tabù, cose che non si potevano dire, che non si potevano discutere. Se vuoi parlare di certe cose istintivamente abbassi la voce, ti guardi circospetto, cerchi di intuire se il tuo interlocutore può o non può essere in linea con il tuo pensiero critico. Io credo profondamente nel pensiero critico, amo i rompicoglioni, amo chi questiona, chi mette il dito nella carne del problema. E di questo sento una grande mancanza, soprattutto da parte di tutte le persone che abitano il mondo dell'arte e che, per loro stessa natura, dovrebbero alimentare il pensiero critico per vocazione. Avverto un grande silenzio, una grande stasi e un'enorme paura di essere giudicati. Tutto questo mi dice che abbiamo già attraversato e digerito una grande trasformazione culturale che ha polarizzato le persone: o stai di qua o stai di là, ma nel mezzo a rompere le palle no. Onestamente non mi interessa da che parte mi possa collocare chi mi ascolta. Non sono mai stato da nessuna parte in particolare, mi piace muovermi, cambiare idea. Celaya scriveva che l'arte è un'arma carica di futuro. Visto che parli di sparare ad altezza uomo, forse dovremmo usare quella come arma.