Una natura desolata e ostile, una strada che si getta verso l'orizzonte celato dal fumo, un uomo che cammina solo nell'immensità del nulla. Una foto che esplicita in modo didascalico le suggestioni che susciterà l'ascolto: il gelo dell'elettronica piegato al palpito malinconico, la solitudine di un artista che, dopo piccole e grandi produzioni (Lana Del Rey) e un Ep denso di hype, ha intrapreso un percorso che lo ha portato lontano, nonostante le incognite incontrate del viaggio.
Toph Taylor, meglio conosciuto con il moniker di Sohn, ha iniziato il proprio cammino da Londra, rutilante metropoli che gli ha dato i natali, per giungere a Vienna, città musicalmente meno stimolante ma in grado di dare asilo a quella ricerca di tranquillità ed equilibrio che necessitava all'artista inglese. Tremors è infatti un disco che contempera con concretezza diversi opposti: la modernità di un suono elettronico modellato sulle tendenze (londinesi) di quegli anni e un cuore votato all'amore per il soul e il pop, inteso nella più nobile delle sue accezioni; una professionalità esemplare nel plasmare a proprio piacimento la fredda materia che scaturisce da sample e beat e per converso un coinvolgimento emotivo così sincero da apparire disarmante; il rigore formale nel gestire la metrica del ritmo (le invenzioni ritmiche di The Wheel, ad esempio, sono da urlo) e una predisposizione naturale a creare soundscapes carichi di languori malinconici.
Il risultato finale è un album di elettronica in cui l'elettronica passa in secondo piano, e proprio laddove l'estetica modaiola potrebbe prendere il sopravvento sui sentimenti, la magia (delicatamente e dolorosamente) soul della nitida voce di Sohn riporta ogni nota nell'alveo dell'emozione pura. A voler fare il solito gioco di rimandi e riferimenti, è indubbio che l'ascolto del disco richiami alla mente il Thom Yorke che viaggia in solitaria, Bon Iver, James Blake, Bjork e, a parere di chi scrive, anche un certo gusto retrò per gli anni '80 targati Bronski Beat (Lights). Nonostante ciò, la maestria di Sohn risiede proprio nell'abbeverarsi alle fonti di ispirazione riuscendo poi a superarle di slancio, dando vita a un songwriting lucido e intenso, riconoscibile soprattutto nella tessitura melodica di canzoni che raramente evaporano nel deja vu.
Le volute ascensionali della title track, il pop a cristalli sintetici di Artifice, il soul ultraterreno di Tempest, l'abisso emozionale in cui sprofonda Paralysed sono alcune delle vette di un disco eccellente, e rappresentano nel contempo il meglio che il genere abbia partorito quell’anno. Assolutamente da recuperare.