I teen drama con il sottoscritto hanno sempre avuto gioco facile. In una ipotetica e personale top 5 delle migliori serie tv di ogni tempo ne inserirei almeno un paio. Questo per dire che la produzione originale dello scorso anno di Netflix, 13 reasons why, aveva richiamato la mia attenzione molto prima del grande chiacchiericcio mediatico e sociologico che scaturì nelle settimane successive alla sua messa in onda.
Per chi non avesse familiarità con la serie e non abbia letto o partecipato al dibattito basti sapere che il primo arco narrativo di 13 racconta, attraverso un escamotage molto anni 80, in modo alquanto realistico (per lo meno visivamente) delle persone e dei fatti che hanno convinto la giovane protagonista, Hannah Baker, a suicidarsi. A colpire impietosamente gli spettatori e la critica sono stati la cruda e brutale rappresentazione (abusi psicologici, intimidazioni reiterate, violenze fisiche e carnali) come una semplice, costante e quotidiana abitudine dei teenager dei giorni nostri. Una drammatica escalation di situazioni fino alla scena emotivamente sconvolgente e dettagliata nelle modalità del suicidio dell’adolescente.
Molti, compreso io, hanno ritenuto che la serie avesse esaurito il suo racconto in quella singola stagione ma come è risaputo, quando qualcosa ottiene successo, difficilmente viene riposto nel cassetto, soprattutto in TV. Da qualche giorno è infatti disponibile su Netflix la seconda stagione di 13 che prosegue e amplia la storia dei protagonisti, cambiando il punto di vista da quello della vittima a quello dei presunti carnefici e analizzando l’impatto che la morte di Hannah ha avuto su di loro e su quelli intorno a loro. Volendo evitarvi spoiler non entro nei dettagli dell’azione e sulle modalità con cui riuscirete a (ri)vedere tutti i beniamini (chiamiamoli così una sola volta) della scorsa stagione ma gli autori, attraverso alcuni stratagemmi, riescono in questo intento, anche se personalmente ritengo il risultato raggiunto ben lungi dall’essere soddisfacente.
La prima stagione di 13 si reggeva su una chiave mistery (l’escamotage di cui sopra) atto a incalzare puntata dopo puntata gli spettatori con tutti gli accadimenti che hanno trascinato Hannah all’estremo gesto, scoprendo e emozionandosi così attraverso i suoi occhi, le sue parole e tutte le “reazioni” del suo ascoltatore privilegiato e innamorato, Clay Jensen, l’altro protagonista della serie. In questa stagione invece la chiave mistery, nonostante alcuni tentativi quali delle misteriose fotografie e il processo legale intentato nei confronti della scuola, non decolla mai veramente e gli approfondimenti dei singoli personaggi per ogni episodio (modus operandi anche nella prima stagione), non solo non riescono nell’intento di sfaccettarli meglio di prima ma purtroppo tendono nella maggior parte dei casi ad annoiare. Oltre in alcuni casi ad addirittura causare (malamente) un snaturalizzazione della personalità di Hannah.
Non tutto è negativo: la regia si conferma di buona fattura, gli attori sono quasi tutti a proprio agio nei panni che devono portare e la colonna sonora è veramente ottima. Alcuni personaggi crescono e si ritagliano uno spazio nuovo e interessante: il consulente scolastico, la madre di Hannah e l’irriconoscibile Justin. Clay Jensen, pur restando il cuore della storia, si trova a seguire una sceneggiatura al limite del ridicolo e solo la bravura del suo interprete, Dylan Minnette, salva in parte la situazione. Stendo poi un velo pietoso sulle storylines di Jessica, Marcus e Zach, figlie delle peggior consuetudini narrative del genere. Alex e Bryce galleggiano senza molta convinzione e sussulti. Anche Tyler, la cui importanza nella serie cresce di puntata in puntata, non riesce a distaccarsi dalla sensazione di sapere fin dall’inizio come la sua situazione andrà a concludersi.
Che dire allora di questa seconda stagione di 13: la sensazione è che ci sia stato un livellamento verso il basso nelle intenzioni finali del progetto, assestandosi molto di più sulla spettacolarizzazione/sensibilizzazione delle tematiche via via affrontate (vedi il chiaro riferimento al #MeToo) che su trame meglio assortite e personaggi più particolari e coinvolgenti. Gli autori hanno volutamente lasciato aperte tutte le storie dei personaggi principali e il senso di chiusura della prima stagione è ormai un lontano ricordo. Di certo sappiamo già da oggi che nel caso di una terza stagione Katherine Langford, l’interprete di Hannah, non sarà più della partita. Io invece nel caso di un probabilissimo proseguo continuerò a dare una opportunità a 13: i teen drama hanno gioco facile con me, anche quelli che non mantengono le promesse e/o le aspettative.