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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
23/12/2017
Ozric Tentacles
Tre dischi
Ozric Tentacles è un ensemble raggruppato attorno al chitarrista inglese Ed Wynne e rappresenta una delle più travolgenti riedizioni dello space-rock dai tempi delle sbornie strumentali degli anni Settanta.
di Vlad Tepes

Ozric Tentacles è un ensemble raggruppato attorno al chitarrista inglese Ed Wynne e rappresenta una delle più travolgenti riedizioni dello space-rock dai tempi delle sbornie strumentali degli anni Settanta.

Il loro debutto ufficiale su vinile, Pungent Effulgent, irruppe nelle radio romane alla fine degli anni Ottanta; il primo estratto, “Dissolution”, fece subito sensazione: un lento innesco strumentale, operato da chitarre e percussioni, culminava nella deflagrazione spaziale che liberava l'eccezionale assolo di Wynne e le folate interstellari di voce e tastiere. Questo andamento, ritmato ed eccitante, informa tutto il disco vieppiù arricchito, oltre che da toni dub (“The Domes of G'Bal”, “Ayurvedic”), da influenze world (“Phalarn Dawn”; “Shaping The Pelm”; la stessa “Ayurvedic”, ispirata, evidentemente, alle raccolte religiose indiane del Yajurveda, Veda delle preghiere e delle formule); il risultato è, perciò, variegato, ma assolutamente compatto nel tono, grazie proprio a quel sostrato evidenziato nel primo pezzo, una sintesi fra Gong e kosmische krautrock aggiornata ai ritmi ballabili insorgenti a cavallo delle due decadi.

Il successivo Erpland non aggiunge nulla al fascinoso equilibrio del primo album: il folclore indiano, sudamericano (“Toltec Spring”) e addirittura mediorientale (“Mysticum Arabicola”) viene impastato e rielaborato da una strepitosa sezione ritmica, con accenti dub e capace di potenti accelerazioni; dal liquido sottofondo space di sintetizzatori e campionatori, ricco, come detto, di echi etnici e financo tribali; dai meravigliosi intarsi chitarristici di Wynne. L'operazione è simile a quella dei coevi Black Sun Ensemble, ma i tentacolari riescono ad assemblare gli spunti diversissimi evitando, non solo, la giustapposizione meccanica, ma, anzi, riuscendo nella creazione di un suono peculiare e riconoscibile.

In Strangeitude i Nostri rischiano la maniera, ma il sincretismo sonoro (affiorano con più consistenza allusioni arabeggianti, come in “Saucers”) rimane coinvolgente e mai stucchevole grazie a mirabili cambi di tempo, dettati da un Pepler sempre più essenziale, e alla consueta dialettica tra il bisturi chitarristico di Wynne e l'alveo acquatico in cui fermentano i vari stili, guidati dalle tastiere (paradigmatica, in questo ultimo senso, la borbogliante “Sploosh!”). Più evidente un certo filtro elettronico.

Jurassic Shift, registrato due anni dopo, donerà agli Ozric fama mainstream e vendite meritatissime; i successivi dischi, orbati dalle defezioni decisive di Pepler e Hinton, suoneranno, purtroppo, derivativi sia rispetto alla tradizione seventies così nobilmente rinverdita che alla loro stessa iniziale produzione.