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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
05/06/2023
Pat Metheny Group
Travels
Dal morbido romanticismo di “Goodbye” alla drammaticità di “Goin’Ahead/As Falls Wichita, So Falls Wichita Falls”, Travels incanta per la magia della sperimentazione, per l’alchimia di un gruppo fenomenale che asseconda l’estro di un ispirato Pat Metheny, in un doppio album live indimenticabile, uscito ormai quarant’anni fa, ma ancora prezioso, colmo di vita e bellezza.

Spesso, quando si vuole attaccare un genere multiforme come il jazz si utilizza con un briciolo di arroganza la definizione di musica senza cuore, egocentrica, noiosa e fine a se stessa, ma mai quanto in questa meravigliosa opera tale stereotipo è completamente inappropriato. Un modo per confutare e sconfiggere una tesi così distruttiva è infatti mettersi in cuffia Travels, ovvero godere della freschezza e disinvoltura di un artista sempre pronto a rinnovarsi e mettersi in gioco, con profondità e sentimento.

Antefatto: ormai ben rodato, il Pat Metheny Group nel 1982 si mette in viaggio e attraverso una fitta rete di date raccoglie ovazioni in tutta l’America, compresi alcuni show in Canada. Travels, titolo alquanto appropriato, pubblicato l’anno seguente, immortala a livello discografico questo intenso tour; rappresenta il primo album dal vivo della band e la ritrae nelle infuocate esibizioni di Dallas, Philadelphia, Hartford, Sacramento e Nacogdoches, avvenute nei mesi di luglio, ottobre e novembre. Le tastiere sognanti e malinconiche del mai troppo compianto Lyle Mays, anche superbo compositore, l’ubiquo basso acustico, elettrico e sintetizzato di Steve Rodby, la batteria e le percussioni rispettivamente di Dan Gottlieb e del funambolo Nana Vasconcelos sono il perfetto apripista per le note cesellate di Metheny, abile sperimentatore in grado di rendere naturale ogni sua divagazione e improvvisazione.

 

Nato a Kansas City nel 1954, famoso per essere il più giovane insegnante di musica, appena maggiorenne all’Università di Miami e, poco dopo aver soffiato diciannove candeline, al Berklee College of Music di Boston, Pat è un pioniere della musica elettronica e della sua commistione con il jazz. In particolare l’uso del sintetizzatore Roland “applicato” alla chitarra, il considerarlo uno strumento vero e serio pure in un genere con un’ottica “classista” in tal senso, rivoluziona la visione dell’evoluzione tecnologica, ponendo le basi per nuove sonorità, per una maggiore libertà compositiva, grazie a un artista che spazia dall’amata Gibson ES-175 alle Manzer acoustic e 42-string Pikasso guitar, fino alle Ibanez. Una ventata di aria moderna, rispettando comunque la tradizione, con l’inizio di carriera insieme al mitico vibrafonista Gary Burton, l’esordio solista con Bright Size Life (1976), seguito da Watercolors, New Chautauqua e da quel piccolo capolavoro di 80/81 con Michael Brecker e Charlie Haden, mentre in parallelo si sviluppa il progetto Pat Metheny Group (durato dal 1977 al 2010 con vari cambi di formazione), che, prima di Travels, vede la pubblicazione del brillante Offramp.

 

L’opener "Are you Going with Me" arriva proprio da quell’album, funge da apripista e giunge in punta di piedi, per poi dipanarsi vertiginosamente: suoni freschi e puliti, come una passeggiata d’estate nei boschi, ove trova vita uno dei migliori assolo di Metheny, l’uomo che sa far barrire la sua sei corde, registrati su disco. Ed è opportuno enfatizzare due caratteristiche che rendono speciale la canzone, una prettamente tecnica, con il suono del Roland Gr-300 studiato per ricordare a tratti un flauto, ma più comunemente una tromba, un flicorno. La seconda particolarità si denota invece nello stile musicale influenzato da un groove latino americano, si strizza l’occhio al Brasile, alla samba e la presenza di Vasconcelos ne certifica l’inflessione.

Un altro valore aggiunto di questo doppio live risiede in una manciata di canzoni esclusive, fino a quel momento inedite. Attraverso di esse si incontrano i lati più morbidi e affascinanti del gruppo, e in tale ottica "The Fields, The Sky" è un punto di partenza eccezionale con l’inconfondibile berimbau di Vasconcelos sullo sfondo di una melodia suprema. Quest’ultimo non è solo un vero mago delle percussioni, ma in alcuni casi ricama i brani di armonie vocali, una delle tante sue specialità evidente nella romantica "Goodbye", malinconica e straziante nenia da groppo in gola. Ma è la title track il brano trainante tutta l’opera, una fotografia rilassata degli States che tuttavia ingloba nelle sue note la storia delle origini di un popolo dilaniato dai contrasti, con il blues e il folk a intrecciarsi con attitudini fusion e a cullare in tranquillità l’ascoltatore, come lo farebbe una sedia a dondolo sul portico posteriore di casa.

Scenari simili ci attendono in "Farmer's Trust", un lento tuffo in un oceano di strade non asfaltate e indorate dal sole salito in cima ai monti, dal sussurro degli uccellini e dal fruscio delle foglie che li nascondono, oppure nei vorticosi percorsi di "Extradition" e "Song for Bilbao", canzoni visionarie e sognanti guidate dal synth.

Non si vive, però, solo di synclavier e sintetizzatori, a volte la chitarra di Metheny torna lucente, robusta e corposa e Lyle Mays svela le sue magistrali doti di pianista e organista, cimentandosi persino all’autoharp. Il PMG nasce come collettivo e lo dimostra nella tonificante "Straight On Red", in cui la batteria tonitruante di Gottlieb funge da trampolino di lancio per i vari assoli.

 

“La mia maniera di ascoltare e pensare alla musica è così coinvolgente che devo ammettere una sorta di perplessità di fronte ai molti modi in cui sovente gli altri la percepiscono, con rapidi e superficiali commenti.  Per riuscire ad analizzare bene le stesse cose spesso mi ritrovo a lavorare dei mesi per capirle”.

Il chitarrista del Missouri, da buon “Professore” non dimentica la fatica e il sacrificio che fanno da complemento a una passione, e il gusto per una melodia ricercata, il lavoro certosino per rendere fluida una composizione necessitano di tempo sia nell’attuazione sia nell’analisi critica. La scintillante "San Lorenzo", l’ancora più effervescente "Phase Dance", dimostrano le sue capacità nel creare veri e propri standard senza tempo e non possono mancare nella scaletta. La stessa celeberrima "As Falls Wichita, So Falls Wichita Falls", introdotta dall’altro pezzo da novanta intitolato "Goin’Ahead", figura in setlist, anche se in versione leggermente ridotta rispetto all’originale sul disco omonimo, quando riempiva da sola una facciata. Comunque pure in quest’interpretazione è stupefacente, mentre si allunga come una lunga dissolvenza cinematografica e spalanca le finestre sul sound visionario della band, evocando lo spirito dei Weather Report.

 

Parafrasando Italo Calvino, spostando il concetto dalla letteratura alla musica, un classico è un disco che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”, e Travels, vincitore di un grammy per migliore performance jazz fusion, è uno dei paradigmi di questa affermazione, con la sua capacità di associar emozioni specifiche a differenti qualità sonore, un quid profondamente radicato nel nostro passato ancestrale e ora emergente nelle dodici composizioni corali, sintesi di armonia universale, attimi irripetibili che si cristallizzano nella bellezza eterna. 

Pat Metheny prosegue in una carriera di tutto rispetto fino ai giorni nostri, con What It’s All About (2011) e Road to the Sun (2021) vette di un’ispirazione mai sopita, di un coraggio pronto a dirottare la nave anche verso acque meno sicure, con traiettorie stimolanti, simbolo di una creatività indomabile. Rimangono comunque indelebili gli anni Ottanta e Novanta, i quali, da Travels in poi, brillano per collaborazioni eccezionali, dalla instant hit "This Is Not America" con David Bowie a "I Can See Your House from Here" in duo con John Scofield, senza scordare le partnership con Ornette Coleman, Charlie Haden, Jim Hall e i leggendari concerti con Pino Daniele: ascoltate, se già non lo conoscete, Sciò live del bluesman napoletano e troverete un’affinità elettiva da brividi con il chitarrista a stelle e strisce: un’empatia che sfocerà in una serie di concerti in terra italiana, fra cui quello, ormai mitico, a Cava de’ Tirreni, nel 1995.

Nessun confine per una serie infinita di viaggi, “travels”, verso un orizzonte incompiuto e a cui tendere, questo è il tragitto dell’esistenza di Metheny, con la chitarra come unico bagaglio e la musica a fungere da propulsore, sinonimo di passione e vita.