Conoscevo Alessandro Rocca di nome, per quelle solite strane interazioni che si agitano sui Social Network tra persone che condividono la stessa passione. Sapevo che suonava, perché ogni tanto postava qualche brano o qualche filmato di concerti ma io, detto molto sinceramente, non ci avevo mai dato peso. Troppi input, bisogna per forza selezionare e i criteri con cui lo facciamo sono spesso più casuali che misteriosi.
Dovrei chiedere scusa a centinaia di persone che mi hanno proposto i loro lavori, a volte con una mail dedicata, più spesso con un comunicato stampa generico. Sono tantissimi e il più delle volte non ho tempo neppure di rispondere che ci proverò. Chissà quante cose mi sono perso, nel frattempo. Certo, non tutto sarà stato all’altezza ma qualche cosa di sicuro sì. Inutile però recriminare: neppure se lo facessi di lavoro ce la farei. Si va avanti, cercando di fare quel che si può e, soprattutto, si è grati per quelle rare volte in cui fermarsi ad ascoltare ti mette in contatto con l’inaspettato.
Per cui Alessandro Rocca suona ma, per quanto ne sapevo, non aveva ancora pubblicato nulla di ufficiale. È di Varese, città di grandissime band come Il Triangolo e Il Fieno, di uno studio di registrazione come La Sauna, che ha fatto la storia dell’Indie da queste parti, sotto la regia dell’indimenticabile Andrea Cajelli.
È stata la mia città, Varese, almeno fino a quando non ho terminato il liceo e mi sono trasferito a Milano. Questo vuol dire che ho seguito solo da lontano tutto quello che è accaduto negli anni successivi, dalla Ghost Records al Twiggy, una scena fiorente che attirava tanti bei nomi anche da fuori.
Immagino che Alessandro abbia fatto parte di tutto questo e che “Transiti”, il suo disco d’esordio, sia nato in quel contesto. Ci ha messo dieci anni ed in che modo da un periodo di tempo così lungo sia potuto venir fuori un lavoro così omogeneo, è un qualcosa che gli chiederò quando avrò modo di intervistarlo (perché accadrà, statene certi).
Al di là di questo, preferisco non perdermi in chiacchiere: senza mezzi termini, questo potrebbe essere il disco italiano dell’anno. Non è un lavoro semplice, non è immediato e non è fruibile. Non assomiglia a nulla che vada per la maggiore adesso, non ammicca a nessun trend e risente inevitabilmente degli ascolti e della sensibilità di un autore che ha da poco passato i quaranta e ha dunque un background che alle giovani generazioni che si sono prese il mercato potrebbe apparire a dir poco preistorico.
Ma noi ce ne freghiamo allegramente. Questo è un album che cattura subito. Lo fa a partire dalla copertina di Andrea Tomassini, dal sapore quasi espressionistico, con quest’uomo seduto sotto la finestra in un’atmosfera di cupo abbandono, che fotografa alla perfezione tutto quello che verrà narrato nei testi.
E se il parametro di oggi rischia di essere il più delle volte la durata, per cui 56 minuti potrebbero rappresentare un minutaggio scoraggiante ai più (e non nego di averlo pensato anch’io perché ormai prima di mettermi al lavoro controllo sempre per quanto ne avrò. Viviamo brutti tempi, davvero) basta l’arpeggio di chitarra dell’iniziale “Stipiti”, con l’aggiunta delle prime frasi cantate e, ve lo giuro, non riuscirete più a staccarvi. Alessandro canta benissimo, ha un timbro molto caldo, colloquiale e perfetto per le sonorità che propone ma questa sua abilità ad usare la voce rappresenta un vantaggio all’interno di un genere che non chiede quasi mai al cantante di saperci fare.
Gli arrangiamenti sono un altro punto di forza. Luca Gambacorta ha svolto un egregio lavoro e l’ha fatto sostanzialmente all’insegna della semplicità: ciascun brano si sviluppa in maniera lineare, con la chitarra a fungere da base al tutto e la voce in primo piano, che porta avanti il dipanarsi dei testi. Gli altri strumenti, piano (lo stesso Gambacorta), violoncello (Cecilia Santo), contrabbasso (Marco Di Francesco) e clarinetto (Paolo Grassi) si incastrano con una naturalezza disarmante, riempiendo gli spazi e intervenendo immancabilmente ogni volta che si comincia a desiderarli, a sentirne la mancanza. È tutto così al posto giusto che si fatica a credere sia vero. Ma è anche merito della scrittura: perché il rischio, con questo tipo di proposte, è che la narrazione vada a discapito della musica, che l’importanza delle parole tenda quasi inavvertitamente a far scivolare in secondo piano le melodie, così che l’insieme potrebbe anche suonare gradevole ma il più delle volte fin troppo intellettuale.
Qui non succede mai: le dieci canzoni che compongono “Transiti”, pur non essendo dei brani Pop, incantano con la loro bellezza prima ancora che se ne decifri il messaggio. Ci sono episodi più aperti, dove il piano e gli archi punteggiano le linee principali creando un gustoso effetto cameristico (“Nessuno”, “Mare”, “Mosche”, per citarne alcuni) e ci sono quelli dove la chitarra appare più isolata, con un effetto straniante e declamatorio, quelli dove l’angoscia trasmessa dalla copertina filtra anche attraverso i solchi (“Stipiti”, “Sventrati”, “Topi”, giusto per semplificare).
Ma qualunque cosa accada, non ci si annoia mai. Certo, non ne uscirete freschi e confortati, è ovvio: Alessandro ha riversato in questi brani dieci anni di esperienze e riflessioni e, a prescindere da ogni tentativo di ricostruirne una biografia, qui ci sono gli appunti di un uomo sofferente. C’è l’ossessione tutta baudelairiana per la morte intesa come consumarsi della materia ma senza quell’anelito all’infinito che pure caratterizza l’opera del poeta francese. Prevalgono piuttosto una rassegnata rinuncia alla possibilità di lasciare la propria impronta nel mondo, un pacato dispiacere per le occasioni perse e per i cari perduti, un richiamo all’infanzia come momento idealizzato in cui sperimentare la vera felicità, una ribellione anarchica alle pretese di incasellamento da parte della società. Il tutto espresso attraverso un linguaggio colto ma non artificiosamente letterario, che utilizza ora riflessioni complesse ma perfettamente intelligibili, ora immagini strazianti, rese mediante correlativi oggettivi di bruciante realismo.
È un viaggio nel buio e a volte manca il fiato ma alla fine, in qualche modo, si arriva alla luce: “Io voglio vivere, non l’ho scelto sì ma io voglio vivere” canta alla fine della title track, in quelli che sono gli ultimi versi del disco. C’è un anelito che ci sospinge sempre avanti, anche quando non si sa dove andare; ed è un anelito che non verrà mai meno, anche nella consapevolezza di un’esistenza transitoria, dove l’urgenza del significato a volte schiaccia, a volte non viene neppure avvertita.
Alessandro Rocca ha trovato una via italiana allo Slowcore, probabilmente. Ha trovato il modo di far convivere i Red House Painters, l’esagerata verbosità di Mark Kozelek, le confessioni sussurrate di Elliott Smith, con una strada che, per rimanere al nostro paese, passa da Piero Ciampi per arrivare ai La Crus, senza dimenticare nomi più di nicchia ma che si sono già mossi su coordinate simili, come il già citato Fieno o gli Io?Drama di Fabrizio Pollio, di cui talvolta si odono gli echi.
Ribadisco: non è roba semplice e richiede attenzione, non si può certo dare un ascolto veloce ad un paio di brani per poi esprimere un parere superficiale. È un disco nel quale bisogna immergersi ma, voi direte, qual è la novità? Non dovrebbe funzionare sempre così? Ecco, che “Transiti” ci aiuti allora a riprendere le vecchie abitudini e che più persone possibili possano ascoltarlo ed apprezzarlo. Sarebbe decisamente un male se passasse via inosservato.