Unicum per quel che riguarda il lungometraggio, questo Transamerica è il solo film a firma Duncan Tucker, regista che dal 2005 a oggi non ha girato altro, un po' un peccato perché questo on the road sulle strade degli Stati Uniti d'America non era (non è tuttora) affatto male costituendo a tutti gli effetti un esordio davvero convincente e che dava adito a diverse speranze. E invece sembra che Tucker, dopo aver raccolto diversi riconoscimenti per la sua opera prima, si sia poi dedicato ad altre forme d'arte come la pittura e la fotografia per le quali tiene diverse mostre negli Stati Uniti.
È un esordio spontaneo quello di Tucker che affronta un tema delicato, quello dell'identità transgender, in maniera diretta e senza troppe sovrastrutture, costruendo una storia in movimento dove il racconto sulla strada è catalizzatore se non proprio di una subitanea crescita almeno di un graduale e difficoltoso cambiamento, assecondando un poco il ritmo di come gli eventi della vita si muovono nella realtà.
Si apprezza dell'approccio alla narrazione di Tucker la sobrietà e la volontà di non cadere nell'eccesso pur non risultando mai serioso, anzi, donando a una storia nella quale è presente una bella dose di sofferenza un piglio divertente che alleggerisce con naturalezza situazioni tese e difficili. Nel far quanto appena descritto il regista di Kansas City inserisce molti degli scenari propri del film di viaggio americano: spazi sconfinati, abitazioni isolate, posti di passaggio, aree di servizio e tutta quella mitologia geografica che proprio il cinema ci ha insegnato ad amare nel corso dei decenni.
Bree Osbourne (Felicity Huffman), nata Stanley Osbourne, è una transgender che sta seguendo un percorso psicologico e fisico (pastiglie di ormoni) al fine di arrivare all'operazione che le permetterà di cambiare definitivamente sesso e coronare il sogno di essere donna in maniera completa, assumendo quell'identità di genere che ha sentito sua fin da tenera età.
L'ultimo ok per l'operazione deve darlo la sua psicoterapista (Elizabeth Pena) finora molto contenta del percorso effettuato da Bree. Poco tempo prima dell'intervento Bree viene contattata dal carcere dei minori di New York da un certo Toby Wilkins (Kevin Zegers), un ragazzo in stato di arresto per prostituzione e possesso di stupefacenti che dice di essere il figlio di Stanley; Bree reagisce mentendo al ragazzo dicendogli che Stanley non abita più lì.
È così che Bree scopre di aver avuto un figlio da quell'unica relazione eterosessuale consumata in gioventù; quando anche la psicoterapeuta viene a conoscenza del fatto impone a Bree di affrontare il ragazzo, pena il mancato ok per l'operazione, cosa alla quale Bree tiene più che a tutto il resto.
Bree si recherà così a New York e pagherà la cauzione al ragazzo senza però dirgli mai chi lei sia in realtà e nemmeno parlandogli della sua condizione in mutamento, facendosi invece passare per il membro (niente battute, please) di una chiesa che si opera per aiutare i ragazzi bisognosi.
Toby non è un cattivo ragazzo nel profondo ma di certo è uno sbandato a cui mancano i legami e una famiglia (nel frattempo la madre è morta); l'interazione tra i due all'inizio non sarà facile ma il viaggio verso Los Angeles, dove Bree deve operarsi e dove Toby vorrebbe sfondare nel cinema cercando inoltre di rintracciare un padre che ha mitizzato (e che al limite ora potrebbe essere una madre), servirà ai due per conoscersi e per contribuire a dare un giro di vite, non semplice, alle loro vite che potrebbero aprirsi a un futuro migliore.
Nel costruire questo Transamerica Tucker ha l'intuizione felice di affidarsi a una perfetta Felicity Huffman per il ruolo di Bree; l'attrice nota più che altro per il ruolo di Lynette in Desperate Housewives interpreta magnificamente un uomo che a fatica cerca la sua voce vera (in tutti i sensi), quella femminile, lo fa guardando a un modello di donna antico, pulito e ricercato, una ricerca che rispecchia la profondità del desiderio di femminilità di una protagonista che avrebbe potuto scegliere una via più semplice verso l'accettazione collettiva.
È fuor di dubbio lei/lui il personaggio portante di Transamerica nonostante le difficoltà di suo figlio non siano da trascurare, soprattutto in quella fantasia fanciullesca su un padre benestante che potrebbe accoglierlo in quel di L.A. (Bree tra l'altro non gode di un gran conto in banca), un padre che Toby idealizza mentre egli sta diventando una potenziale madre.
Nel loro percorso, classico e sicuramente nemmeno troppo trasgressivo a livello narrativo, lungo il loro viaggio, i due affronteranno il loro rapporto ma anche quello con la famiglia d'origine di Bree (in realtà è quella di entrambi a insaputa di Toby), un nucleo famigliare che per la donna non è mai stato un nido, un porto sicuro, con una madre (Fionnula Flanagan) che continua a non accettare le predisposizioni del suo Stanley e una sorella un poco stronza (Carrie Preston).
Così l'aprirsi a un futuro forse migliore passerà per forza di cose dal confronto con un passato e un presente di ingombranti tensioni. Ci si muove poi verso un'inevitabile rivelazione e un finale che non può essere altro che un inizio.
Tucker dirige con mano convenzionale ma sempre mettendo in campo una giusta misura, un equilibrio magari prevedibile ma anche sincero, affronta un tema spinoso con il rispetto e la delicatezza che sicuramente non sempre accompagnano la realtà ma di cui in fondo ci sarebbe davvero bisogno.