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REVIEWSLE RECENSIONI
26/05/2023
The Used
Toxic Positivity
“Toxic Positivity” è un viaggio nella vita di una persona depressa e ansiosa, fatto di brutali e onesti racconti di cosa questo significhi e di melodie brillanti, oscure e accattivanti, che testimoniano un prepotente ritorno dei The Used ai suoni e alle atmosfere che i fan di vecchia data ben conoscono e non potranno che apprezzare.

La “positività tossica” del titolo del nuovo album dei The Used affronta un tema interessante, tragico ed attuale: la pressione ad essere sempre allegri e ottimisti, a prescindere da quanto sia tragica o disperata la situazione che la persona in oggetto sia vivendo; il condizionamento a ignorare la verità dei propri sentimenti per fingere che vada tutto bene.

Tutto ciò che è rabbia, tristezza o altre emozioni negative correlate ad uno stato d’animo depresso o in forte difficoltà vengono rifiutate, anche quando sarebbero legittime o normali, e viene incoraggiata solo la reazione positiva per far fronte ad esse. Il Truman Show emotivo prevede che non vi siano concessioni a stati d’animo negativi, nemmeno per accoglierli e viverli anche solo per un periodo, pena l’accusa di fragilità e fallimento.

Una dinamica, in ogni caso, che è bene sottolineare essere ben diversa dal rispondere in toni positivi al prossimo tentando di evitare “interessamenti tossici” da parte di conoscenti curiosi, pronti solo a sparlare di una situazione di difficoltà o a ingaggiare infinite discussioni sui momenti di fragilità del prossimo. In questo caso è un evitamento di rotture di palle, nel caso della positività tossica, invece, si è intrappolati in una gabbia emotiva sia nei confronti degli altri sia verso se stessi, non avendo mai il permesso di provare o vivere un’emozione triste.

 

In risposta a questa pressione sociale (e culturale) al bello, buono, leggero e allegro ad ogni costo, i The Used e il loro capitano, Bert McCracken, si ribellano portando in scena i peggiori lati, pensieri ed emozioni della depressione più acuta, tanto che lo stesso McCracken ha dichiarato di avere difficoltà ad ascoltare il disco, perché è un riflesso di alcuni dei momenti peggiori della sua vita.

Toxic Positivity racconta difatti il viaggio di una persona nel campo della salute mentale: dalla depressione acuta, densa, cupa e senza speranza, fino al raggiungimento di una forza che permette di continuare a combattere per se stessi. Come tutti i migliori viaggi, inoltre, non è stato compiuto in un unico periodo, ma è stato registrato in momenti diversi: dopo la prima sessione, rappresentata nella prima metà dell’album, McCracken ha infatti ritenuto che il disco non raggiungesse una conclusione soddisfacente, quindi qualche tempo dopo, più di recente e in uno stato mentale migliore, ha chiamato gli altri membri dei The Used ed è tornato in studio: dopo una decina di giornate ne è venuta fuori quella che è diventata la seconda parte dell’album.

 

Sarà in questa fase che è stato scelto di non includere nel nuovo disco i due (bellissimi) singoli “People Are Vomit” e “Fuck You”, usciti solo qualche mese prima della pubblicazione ufficiale dell’LP? Forse, sta di fatto che è probabilmente uno dei peccati maggiori di un album altrimenti decisamente riuscito, anche se troppo corto (poco più di 30 minuti).

Toxic Positivity, prodotto come (quasi) sempre da John Feldmann, ritorna violentemente alle radici del suono dei The Used più classici, richiamando prepotentemente i suoni, le atmosfere e le soluzioni interpretative di Lies for the Liars (2007), lasciandosi alle spalle molte delle sperimentazioni più pop osate con l’ultimo Heartwork (2020). Al tempo stesso, come nella migliore tradizione, non si dimentica di abbinare ad un portato testuale e interpretativo oscuro e doloroso una fruizione sonora melodicamente accattivante, popolata di ottimi inni e breakdown, teatrale e sardonica, tutta da cantare sotto il palco o dentro casa.

 

Il viaggio nelle terre dell’antitesi alla positività tossica inizia con i peggiori picchi di depressione, dove canzoni come “Worst I've Ever Been”, “Numb” e “I Hate Everybody” descrivono con schiettezza lo stato mentale di chi si ritrova nella pece più nera, incazzato, disilluso, intorpidito e insensibile: «Nessuno può fermare questo mondo malvagio dal bruciare. […] Non chiedetemi nessun fottuto favore, non sono il dannato salvatore di nessuno. […] Il cielo sta cadendo, non venire a chiamarmi» (“Worst I've Ever Been”).

«All my friends are falling in love, but I can't even fall asleep - Tutti i miei amici si innamorano, ma io non riesco nemmeno ad addormentarmi». (“I Hate Everybody”)

«Mi sveglio e sono sottoterra, non vedo alcun segno di vita intorno a me, non riesco a trovare il polso della situazione. La realtà è che sono un fantasma. Io e la mia testa siamo nemici. Sono stanco di lottare contro tutto. Ultimamente, ho trovato difficile fregarmene di qualsiasi cosa. Mi sento insensibile. Qualcun altro si sente insensibile? Odio quando inizio a preoccuparmi troppo, odio quando inizio a farmi prendere la mano, odio quando mi spingo troppo in là e devo prendere le armi per proteggermi. Sto meglio in modalità silenziosa, al sicuro dal sovraccarico esterno». (“Numb”)

 

Una progressione negativa che a suo modo esplode con “Pinky Swear” (traducibile con “giurin giurello”), dove si legge la prima richiesta d’aiuto: «Legare la tua mano alla mia per non andare via. Mettimi in tasca, giura con il mignolo che resterai. Non posso farlo da solo. Salvami, ho bisogno di sapere come ci si sente, prima che io svanisca».

Una mano tesa verso l’altro che permette di poter arrivare al cuore dell’album, “Headspace”, quello che è forse il brano più denso e personale: un’accurata descrizione di quello che è lo “spazio mentale” di chi si trova in una situazione di sofferenza emotiva troppo grande quasi da concepire, e quasi sempre anche da raccontare.

«Gli arti rotti possono essere riparati, possono essere rimessi al loro posto, sono i sentimenti che sono troppo fottutamente difficili da affrontare. Cambiare la mia prospettiva, questo è quello che dicono. Come se fossi in un'auto e potessi cambiare corsia. Saldare nuovi percorsi neurali nel profondo del mio cervello. Ma non funziona così, vorrei che funzionasse così. Nel mio spazio mentale, mi nutro dell'oscurità e dell'emorragia del mio cuore. Nel mio spazio mentale, torno al punto di partenza, quando non ero ancora caduto a pezzi. Non riesco a lasciarmi andare, il dolore che provo è troppo profondo. La mia testa è nello spazio, persa in un luogo buio, prima che nascessero le stelle, quando c'erano solo ombre per giorni, il tempo non esisteva ancora, e nemmeno io, tranne che nella mia mente, da qualche parte nel profondo della mia mente. La malattia non si vede, vive solo nel profondo di me. Ogni giorno cresce, fino a quando non avrà il controllo, del mio spazio mentale. Non c’è spazio per me, nel mio spazio mentale». (“Headspace”)

 

Spesso sono situazioni di sofferenza che accadono al di là di chi si ha la fortuna di avere accanto, e chi ama coloro che provano queste afflizioni sono talvolta i primi a subirne le conseguenze, ad essere quasi scacciati con rabbia nei momenti più neri, ma sono anche i primi a lottare perché chi cade in questi baratri possa stare meglio e restare assieme a loro. Questa dicotomia dell’amore ai tempi della solitudine e della sofferenza emotiva prende corpo particolarmente bene con il binomio “Cherry” e “Top of the World”, dove la prima rappresenta il tentativo da parte di chi soffre di restare nel proprio dolore cacciando anche chi si ama, mentre la seconda mostra come la strenua resistenza di chi ama ed è rimasto nonostante le difficoltà possa poi rivelarsi la luce in fondo al tunnel a cui tendere, l’ancora a cui aggrapparsi; “Top of the World” cattura l'essenza della gratitudine e la forza che si trova nell'amore di qualcuno che non si arrende mai.

«Ho voglia di bruciare tutto. Lo costruisco per romperlo. Non so perché mi tieni con te. Hai solo paura di cambiare? Farò una scenata finché non te ne andrai, perché sono in una serie di sconfitte. Ero la ciliegina sulla torta, ora sono il chiodo nella bara. Quindi seppelliscimi nella terra a cui appartengo, seppelliscimi. Se tutto quello che faccio è amarti male, seppelliscimi. Posso andare molto più in basso, quindi seppelliscimi, perché lo farò, se non mi seppellisci. Ho voglia di fare un suono terribile, e tu non hai bisogno di salvarmi. E se pensi che io sia stato giù, non sai fino a dove posso arrivare. Farò sanguinare tutto. Forse l'infelicità è la medicina di cui ho bisogno. Ero la ciliegina sulla torta, ora sono il chiodo nella bara» (“Cherry”).

«Senza di te non sono niente. C'è un buco nero nel mio cuore. Non sono degno di essere amato. Guarda tutte le mie parti rotte. Gli angeli riderebbero alla vista del mio viso. In qualche modo tu vedi più dei miei molti errori. Non lo capisco. Ti ho dato ragioni per cui dovresti scappare. Così lontano dal romantico. Non ti biasimerei se mi lasciassi a terra, e non resterei se sapessi quello che sai tu. Sono il Titanic, che affonda velocemente, ma tu tieni duro. È un lungo cammino verso il basso, quando sei in piedi in cima al mondo. Sì, tu mi porti in cima al mondo, quindi non guardare giù. Non andrò da nessuna parte, preferisco stare qui con te».  (“Top of the World”)

 

Se con la prima parte dell’album si era caduti così in fondo al baratro da ritenere al massimo ironica la possibilità che esista un’uscita da una condizione di sofferenza emotiva estrema, con la seconda inizia il combattimento per uscire da quello status, la volontà di ribellarsi ad esso, anche se con estrema fatica e a seguito di numerose sconfitte. Con “Dancing with a Brick Wall” e “House of Sand”, quindi, quando le tracce che separano dalla conclusione sono ormai pochissime, inizia la vera e propria scalata verso la luce con se stessi. Anzi, forse si dovrebbe dire che inizia la danza (ora vorticosa, ora lenta) che il proprio io decide di iniziare per cercare prima di contrastare e poi di convivere con la morte, la disperazione e il dolore.

Con “Dancing with a Brick Wall” si mette in scena la lotta con la morte usando melodie travolgenti e danzerecce, dove questa è vista come un muro di mattoni, ferma e imperturbabile al netto dei continui tentativi nell’abbatterla, e chi vi si scaglia contro deve compiere un gesto di forza quasi inumana per ambire a sconfiggerla, o per lo meno a danzare con lei cercando di non cadere. Con “House of Sand”, invece, con toni più lenti e delicati si riflette sulla natura fragile della vita e sul delicato equilibrio che a volte può esistere tra felicità e disperazione. «È come se vivessi in una casa di sabbia, dove niente sembra durare. Ceneri che cadono tutt'intorno per impedire al sole di bruciare, lo guardo mentre cade tutto giù. Nella mia testa c'è ancora una sinfonia, ma nessuno è seduto al suo posto. Canto una melodia silenziosa. Portami via».

 

Un tocco di vulnerabilità quasi stridente se si considera che l’album si conclude poco dopo con “Giving Up”, che al netto del titolo in realtà non è un inno alla resa, ma un testamento verso se stessi e un messaggio verso chi si è ritrovato nella stessa situazione psicologica ed emotiva, atto a ricordare che anche dove sembra ci sia solo buio c’è ancora la luna, e che la salvezza si può trovare anche nelle piccole cose, anche nelle crepe del marciapiede, da cui a volte, anche contro ogni previsione, possono spuntare i fiori.

«Ieri mi sono svegliato con la voglia di morire. Non vedo la luce del sole da molto tempo, sembra che tutte le piante intorno a me crescano verso il cielo. Tutte le mie radici sono strappate, tutte le mie foglie si sono seccate. Non respiro a meno che non piova, [ma] sì, ho trovato la salvezza, nelle crepe del marciapiede. Ho chiuso con l'infelicità, ho smesso di fingere le tragedie, perché non rinuncerò a me stesso. Dalla terra crescono anche i fiori, nella notte buia la luna brilla ancora. Ieri mi sono svegliato con la voglia di partire, imparando a stare in piedi, guardando verso gli alberi. Forse il cielo ha un'aureola che mi aspetta. Anche gli angeli caduti trovano la loro pace» (“Giving Up”).