Esordire e prendersi tutto subito: una nomination ai Grammy, la top ten americana, la prima piazza in Australia, milioni di copie vendute con il singolo Pumped Up Kicks, una canzone che, ai tempi, restò per ben otto settimane stabilmente posizionata al terzo posto di Billboard.
Sono questi i numeri legati a Torches, primo disco dei Foster The People, band creata dal frontman Mark Foster dopo anni di dura gavetta. Una storia cominciata lontano, quando nel 2002, Mark, un talentuoso ragazzo dell’Ohio appassionato di musica, viene spinto dal padre a lasciare la provincia rurale per inseguire i suoi sogni di gloria nella rutilante Los Angeles. Qui, Foster, se la spassa tra feste e locali, ma è sempre pronto a tirare fuori la sua chitarra per intrattenere gli amici. Suona in alcune band locali, ma senza grande impegno, finisce per fare il cameriere e accantonare la sua passione, salvo poi, nel 2008, trovare lavoro presso la Mophonics, come autore di jingle commerciali. Di sera, si esibisce in un locale di musica elettronica accompagnato solo da un laptop, esperienza, questa, che per sua stessa ammissione, Mark definì mortificante, ma che, fortunatamente, sarà anche la scintilla per dare una svolta decisiva alla propria traballante carriera e decidere di mettere in piedi una band.
Foster decide, così, di arruolare alla causa il batterista Mark Pontius, uno studente di cinema, con alle spalle un’esperienza in varie band locali, e i Foster The People iniziano a esibirsi come duo, fino a quando, nel 2009, alla band si aggiungono anche il produttore Zach "Reazon" Heiligman e poi, il bassista Cubbie Fink, amico di lunga data di Mark e in quel momento disoccupato a causa dei nefasti effetti della recessione.
E qui inizia un’altra storia, fatta di milioni di copie vendute e di un inaspettato successo mediatico. Foster, infatti, scrive e registra una canzone intitolata Pumped Up Kicks e, nel 2010, la pubblica sul sito della band in download gratuito. Nel giro di qualche giorno, la canzone diventa virale, tanto che la rivista Nylon la utilizza per una campagna pubblicitaria online. E’ questo l’abbrivio che porta i Foster The People a pubblicare nel gennaio del 2011 un Ep omonimo contenente tre canzoni, "Pumped Up Kicks", "Houdini" e "Helena Beat", e quindi, l’album d’esordio, intitolato Torches e rilasciato il 23 maggio dello stesso anno.
Torches è un disco mainstream che più mainstream non si può, e non è infatti un caso che la metà delle canzoni in scaletta sia stata pubblicata anche come singolo. I brani, tutti firmati da Foster con il contributo di Greg Kurstin (produttore che ha lavorato con Beck, Foo Fighters, Adele, etc), Paul Epworth e Rich Costey (Sigur Ros, Muse, etc.), hanno uno sviluppo semplice e lineare, messo al servizio del ritornello, elemento fondamentale nella scrittura di Foster, uno che ha imparato ad andare subito al sodo, grazie al suo lavoro di autore di jingle pubblicitari. Questa struttura reiterata, tuttavia, non è priva di fascino: le melodie, infatti, sono irresistibili, gli arrangiamenti minimal, ma gustosissimi, e per tutti i trentotto minuti di durata dell’album si respira l’aria fresca e pulita di una splendente mattinata primaverile.
La tambureggiante Helena Beat apre il disco servendo subito una lezione su come creare una mirabile fusione fra pop ed elettronica, il ritornello entra in testa ancor prima che il brano finisca, e il suono dei synth, così sghembo e inusuale, sembra aver mandato a memoria la lezione degli MGMT di Oracular Spectacular. Pumped Up Kicks è la canzone simbolo dei Foster The People, un brano irresistibile, trainato da una melodia bubble gum e da una ritmica a cui è impossibile resistere, senza battere il piede o abbandonarsi a un morbido headbanging. Un brano famosissimo, che suscitò parecchie polemiche e anche la censura di MTV, in quanto incentrato sulla storia di un ragazzino disadattato, il quale trova la pistola del padre e decide di vendicarsi dei propri coetanei e di una società che non comprende il suo tormento interiore. Curioso come, da questa canzone, leggera e divertente, ma dalle liriche inquietanti, Foster, successivamente, prese le distanze, non tanto per il contenuto testuale, ma perché la trovava banale e mal strutturata, a causa di quel ritornello ripetuto per ben quattro volte a fine brano.
Il disco, nella sua leggerezza quasi adolescenziale, non ha però punti deboli e fila via sul velluto di un pop a presa rapida, sorretto, come si diceva, da arrangiamenti di finissima fattura. Call It What You Want è una chiamata alle armi per festaioli losangelini, possiede una sbarazzina ossatura funky su cui gigioneggia la voce rappata di Foster, Don’t Stop è un’altra bomba melodica che sembra scritta da degli Spoon in gita scolastica, Waste si srotola sinuosa verso un altro ritornello che manda ko, I Would Do Anything For You abbraccia vellutate atmosfere funky soul, e certi suoni (il basso, i synth) aggiungono alla pozione pizzichi di polvere dorata anni ’80, mentre Houdini, altro campione d’incassi, scritta da Foster in solo dieci minuti, brilla per l’uso magistrale delle tastiere oltre che per la consueta irresistibile carica melodica.
Chiudono il set le ritmate Life On The Nickel e Miss You, due brani che testimoniano la bravura di Foster nel far convivere ritmiche martellanti ed elettronica, e la conclusiva Warrant, il brano più lungo e strutturato del lotto, che sigilla un album delizioso e accattivante, una gemma pop che conquista fin da subito, diventando, ascolto dopo ascolto, sempre più contagiosa e virale.