Anche quest’anno il TOdays Festival di Torino ha preparato un’edizione in grande spolvero, l’ennesima di una storia lunga e prestigiosa, per quello che è ormai divenuto uno degli appuntamenti musicali più belli d’Italia, almeno per gli appassionati di una musica che non sia pedissequamente inserita nei circuiti del più scontato mainstream.
La cornice è sempre quella, l’area esterna dello Spazio211, zona periferica di Torino, con anche il tentativo dichiarato di valorizzare un’area dalla non esattamente buona nomea. Purtroppo i sempre meno numerosi finanziamenti da parte della municipalità, unitamente ad una ristrutturazione del Parco Peccei (negli anni passati sede di splendidi live pomeridiani nella giornata di domenica) che sta andando per le lunghe, hanno un po’ ostacolato quest’ultimo obiettivo, ma non sono riusciti a fermare lo spirito di una manifestazione che ha al suo centro innanzitutto l’amore per la musica, prima ancora di ogni ammiccamento ai gusti del pubblico (e che quest’anno, occorre dirlo, ha saputo trovare altri luoghi interessanti dove ospitare gli eventi del pomeriggio, ai quali purtroppo, se si eccettua la mostra fotografica Stolen Moments di Paolo Brillo, non sono mai riuscito a presenziare).
Prima di tuffarci nel racconto dei tre giorni di programmazione e delle dodici band che vi hanno preso parte, partiamo da un dato negativo, l’unico per lo meno che ho dovuto constatare: le code chilometriche e invivibili per mangiare e bere. Con un’affluenza leggermente aumentata rispetto agli altri anni (il sold out del sabato è una piacevole sorpresa oltre che una novità, almeno da quanto ricordo) non è possibile che dalle 19 in avanti sia pressoché impossibile consumare qualcosa senza essere costretti a perdersi uno dei gruppi. Aumentare il numero degli stand o del personale in quelli presenti, mi sembra debba essere una mossa urgente da fare.
Anche quest’anno la line up è stata allestita con grande intelligenza, con attenzione identica ai nomi più giovani e alle realtà consolidate, una giusta preoccupazione di cercare una certa omogeneità tra le giornate, ma anche un tocco di imprevedibilità per permettere ai presenti di scoprire cose lontane dalla proprio comfort zone.
GIORNO 1
La serata inaugurale è stata forse quella maggiormente affine ad un certo tipo di Rock tradizionale in tutte le sue declinazioni. In effetti i King Hannah, saliti sul palco alle 18.30 dopo che la cancellazione del loro volo li ha costretti ai salti mortali e a farli arrivare per miracolo, sono una di quelle realtà che è riuscita a mettere d’accordo un po’ tutti, amanti dell’Alternative e Boomer incalliti. Merito di influenze che spaziano da Pj Harvey ai Mazzy Star, l’elemento Dream Pop evocato dalle etereee linee vocali di Hannah Merrick, unito al lavoro avvolgente del chitarrista Craig Whittle.
Nonostante il sole che picchia ancora implacabile, il duo di Liverpool (come sempre affiancato da un bassista e un batterista a fornire una solida e funzionale sezione ritmica) incanta i presenti per un’ora, con un set quasi totalmente incentrato sulle canzoni dell’ultimo I’m Not Sorry, I Was Just Being Me. Whittle è pazzesco nel disegnare trame sonore che si dipanano senza mai approdare da nessuna parte, crescendo che si dissolvono nella voce pura e delicatissima della Merrick, molto provata dai disagi logistici di cui sopra, ma autrice di una prova precisa e senza sbavature. La cover di “State Trooper” di Springsteen, i dieci minuti mostruosi di “The Mood That I Get In”, vera e propria summa del lirismo chitarristico di Whittle adeguatamente supportato dagli altri tre, e dell’epica e scurissima “Crème Brûlé”, sono stati i momenti migliori di un concerto ricorderemo certamente a lungo. Tra le migliori band mai apparse negli ultimi anni, è un bene che anche noi italiani abbiamo avuto l’occasione di vederli così spesso.
I newyorchesi Les Savy Fav sono invece alla loro prima apparizione nel nostro paese, se non vado errato. Li avevo visti lo scorso anno al Primavera Sound e per quanto mi riguarda il mio giudizio su di loro non cambia: Seth Jabour, Syd Butler, Andrew Reuland e Harrison Haynes sono pazzeschi, un’autentica macchina da guerra che macina riff e tempi complessi, strutture intricate che vanno spesso oltre il semplice Indie Rock al quale vengono spesso accostati. Tim Harrington, da parte sua, è un discorso a parte. Il corpulento frontman, caratterizzato dalla solita barba arancione fluorescente, è dotato di un carisma e di una presenza scenica debordanti, passa più tempo in mezzo al pubblico che sul palco, ruba le macchine ai fotografi, abbraccia la gente, cerca di far cantare un cane (?), immerge le dita nella birra di un’incauta spettatrice, ruba il negroni ad un’altra, rimane in mutande, si agghinda con capi improbabili che dice di aver comprato in un mercatino qui a Torino, e altre amenità del genere. Cantare? Quella non è un’attività a cui sembri particolarmente interessato.
Va a finire che tutti gli occhi sono puntati su di lui, che tutti commentano quanto sia totalmente fuori di testa ed eccessivo, e ci si scorda di quanto siano bravi gli altri quattro e di che razza di live band pazzesca sarebbero se anche il buon Tim gigioneggiasse un po’ meno e si concentrasse maggiormente sulle canzoni. È un peccato perché poi il repertorio, al momento rimasto fermo al 2010, è validissimo, come hanno dimostrato le varie “The Sweat Descends”, “Raging in the Plague Age”, “Are We There Yet?”, nonché il classico “Let’s Get Out of Here”, con Tim ovviamente in mezzo al pubblico a far cantare il ritornello. Nel complesso un bel concerto, ma ancora una volta è inevitabile la sensazione che si sia trattata di un’occasione sprecata.
Non avevo mai visto i Warhaus, il progetto parallelo del polistrumentista dei Balthazar Maarten Devoldere. Ha Ha Heartbreak, il loro terzo disco, uscito a novembre, ha fatto notizia dalle nostre parti per il fatto di essere stato scritto e in parte anche registrato a Palermo, durante tre settimane in cui il musicista belga è rimasto chiuso in una camera d’albergo per guarire dalle ferite inflitte da una relazione amorosa finita.
Rispetto alla sua band principale c’è molto meno ritmo, la band (bravissima) suona più in modalità crooning, ma la quota di groove è comunque parecchio elevata, grazie anche ad una scrittura che al Lounge Pop di riferimento affianca parecchi elementi Soul (lui stesso ha dichiarato di come Marvin Gaye sia stato uno dei suoi elementi d’ispirazione).
Esecuzioni perfette, con grande abbondanza di violino e strumenti a fiato ed una grande attenzione data a Jam e improvvisazioni, con pezzi come “Shadow Play” e “Love’s a Stranger” dilatate per una decina di minuti ciascuna, dove è spesso salito sugli scudi il chitarrista Jasper Maeklenberg, che è anche il produttore del disco.
Senza dubbio più scuri e più contemplativi dei Balthazar (che avevamo tra l’altro ammirato proprio su questo palco nell’edizione del 2019), i Warhaus ne condividono l’amore per la situazione live, fatta di alchimia e connubio tra musicisti che lasciano libere le loro vibrazioni per vedere che cosa può succedere. Concerto splendido, molto più allegro di quanto un disco su una rottura amorosa avrebbe lasciato supporre, anche se forse far cantare al pubblico il tema della conclusiva “Open Window” per un migliaio di volte non è stata una bellissima idea…
Cosa scrivere dei Wilco che non sia già stato scritto? La band di Chicago arrivava in Italia per la prima volta dall’uscita di Cruel Country, preceduta dalla notizia che a settembre avremo già un nuovo disco. Troppa carne al fuoco? In effetti negli ultimi tempi Jeff Tweedy e compagni sono stati piuttosto prolifici, ma la qualità dei loro lavori non è sempre stata in linea con quello che hanno mostrato di saper fare nella prima parte della loro carriera. Proprio per questo, Cruel Country ha messo d’accordo tutti, un parziale ritorno alle origini ma allo stesso tempo una capacità di giocare con la dimensione elettrica e la molteplicità degli arrangiamenti, al servizio di un songwriting finalmente ispirato a dovere. Ci è un po’ dispiaciuto ascoltarne solo quattro pezzi, anche se “Bird Without a Tail/Base of My Skull”, con tre chitarre soliste che hanno fatto qualunque cosa nella parte finale, da sola sarebbe bastata a garantire la nostra presenza questa sera.
Avrete dunque capito che i Wilco hanno dato spettacolo. Più corto di quello della sera precedente a San Mauro di Romagna (dopotutto i Festival hanno le loro esigenze tiranniche in fatto di timing) il concerto dei sei americani è stato comunque pazzesco per intensità, l’iniziale “Spiders (Kidsmoke)” a fungere da dichiarazione d’intenti, tra sfuriate elettriche e suggestioni electro psichedeliche, sono partiti subito a palla senza bisogno di crescere. D’altronde, quando hai gente come Neals Cline e Pat Sansone in line up puoi permetterti questo e altro.
Che dal vivo siano tra i migliori act di sempre non è una novità ma è bello vederlo riconfermato ogni volta, e a questo giro c’è stato addirittura qualcosa in più, un calore particolare, derivato forse dalla consapevolezza di avere meno tempo a disposizione per incantare i presenti. Questo senso di urgenza ha orientato le sorti di un set molto più elettrico che acustico, pieno zeppo di classici ma non per questo scontato, che ha visto in ogni singola esecuzione un piccolo capolavoro, giudizio valido anche per quegli episodi più recenti come “Love is Everywhere” o “If I Ever Was a Child”, che non possono certo annoverarsi tra i loro capolavori.
Menzione speciale per “Jesus Etc.”, che è semplicemente una canzone assoluta, “Impossible Germany” con Neals Cline a fare il diavolo a quattro nella ormai celebre sezione strumentale (con anche una maggiore dose di improvvisazione rispetto al solito), e un finale che è stato tutta una grande botta di energia, con “Dawned on Me”, “A Shot in the Arm”, “I Got You (At the End of the Century)” e “Outtasite (Outta Mind)” sparate in piena faccia come se fosse l’ultimo concerto della loro vita.
Vedremo come sarà il prossimo disco ma per quanto riguarda la tenuta di questa band dal vivo, davvero abbiamo finito le parole.
GIORNO 2
La giornata del sabato, dati gli artisti coinvolti, è probabilmente quella dal coefficiente più alto di rumore. Si parte coi Gilla Band, che mi ero perso quando erano passati lo scorso anno da Milano. Il quartetto irlandese ha portato agli estremi la ricetta di Post Punk abrasivo dei vari Idles, Shame, Fat White Family ed altri, parte di una scena sempre più affollata. Rispetto ai gruppi citati, la melodia è ridotta al minimo, quasi assente, e quel rimane è una struttura ritmica quadrata e a tratti casinista (Daniel Fox al basso, Adam Faulkner alla batteria), che tiene insieme una chitarra che gioca tutto su riff dissonanti e strisciamenti di plettro sul manico (Alan Duggan, che ha uno stile semplice ma personale e molto godibile a livello visivo). Il tutto arricchito dalle vocals a tratti declamate e a tratti urlate di Dara Kiely, non un grandissimo frontman ma senza dubbio funzionale all’insieme.
Il loro è un set monolitico, decisamente ostico, dove gli occasionali inserti di elettronica vanno ad aggiungere un tocco di atmosfera apocalittica. Partono lenti, con le varie “Umbongo”, “Pears for Lunch”, “Post Ryan” che prediligono un ritmo cadenzato, nel finale crescono e arrivano a diventare devastanti, “Bin Liner Fashion”, “Backwash”, “Shoulderblades” ed “Eight Fivers” a far pogare furiosamente le prime file.
A livello compositivo non hanno molte frecce al proprio arco (personalmente l’ultimo Most Normal non mi aveva convinto granché, a differenza del precedente The Talkies) ma dal vivo appaiono di gran lunga più convincenti. Vedremo in futuro.
Anna Calvi negli ultimi anni, tra maternità, pandemia e progetti paralleli vari, è uscita un po’ dai radar, con l’ultimo disco Hunter risalente al 2018 (la versione rivisitata con tanto di ospiti, Hunted, è del 2020 ma direi che non conta) e se si eccettua la partecipazione alla colonna sonora di Peaky Blinders, con un EP di quattro brani intitolato Tommy, tra brani inediti ed una versione meravigliosa della “Red Right Hand” di Nick Cave, tema principale della serie, di lei non abbiamo nulla di nuovo da tempo. Speriamo che questo giro estivo di concerti sia il preludio ad un ritorno anche in studio, perché sarebbe un peccato che il discorso intrapreso coi primi, splendidi dischi, rimanesse incompiuto.
Nel frattempo cominciamo a dire che dal vivo non ha perso nulla del proprio valore. Accompagnata da una tastierista e da un batterista (niente basso, che ogni tanto era in base, ogni tanto era riprodotto mediante tastiera, ma il più delle volte assente, sostituito adeguatamente da una chitarra pienissima ed avvolgente), comincia il concerto con un lungo solo di chitarra, tuffandosi poi in “Suzanne & I”. Vocalmente superba, sia dal punto di vista tecnico che da quello espressivo, la sua chitarra graffia come non mai ed il suono è sia durissimo sia oscuro, una radice Blues che va a mescolarsi col cantautorato “maledetto” di un Nick Cave, mantenendo però sempre lo sguardo fisso verso la tradizione Folk e la canzone d’autore. Una ricetta che era piaciuta tantissimo agli esordi, e che non sembra aver perso la propria efficacia, anche perché nel panorama musicale non è facile trovare artiste che fanno quello che fa lei, unendo così tanto la tecnica alle emozioni (sicuramente St. Vincent, ma lei è molto più Pop e barocca).
Set purtroppo breve (appena 45 minuti, la media per ogni artista qui è di circa un’ora) condito dalle solite canzoni, ma era tanto che non la vedevo e va bene così. “Indies or Paradise” è meravigliosa con la sua lunga divagazione strumentale, poi “Desire”, “I’ll Be Your Man”, “Don’t Beat the Girl Out of my Boy” e, a chiudere, la meravigliosa cover di “Ghost Rider” dei Suicide, resa magnificamente e teatro di una lunga Jam, sporca e scurissima, dove la sua chitarra ha fatto davvero il bello e il cattivo tempo. È talmente alto il livello che, quando si capisce che è già finito (abbastanza ovvio, visto che di solito i concerti li termina così) il disappunto è piuttosto forte. Tra i più bei concerti di questa edizione ma anche di quelli visti qui negli anni in cui ho partecipato. Serve un nuovo album e un nuovo tour, davvero mi ero scordato di quanto fosse brava.
Gli orari di stasera sono stati anticipati di circa mezz’ora, probabilmente nel tentativo di scongiurare la pioggia prevista in serata (ne cadrà un po’ durante i Verdena ma niente di che, per fortuna), per cui prima che scocchino le 21 è già il turno degli Sleaford Mods.
Il duo di Nottingham era stato protagonista di un concerto memorabile nell’edizione del 2019, in pieno giorno, nello scenario post industriale del Parco Peccei. Da allora tante cose sono cambiate: l’hype attorno a loro è cresciuto esponenzialmente, l’ultimo UK Grim che li ha consacrati a veri e propri padrini di un’intera scena musicale, come testimoniano anche i featuring di artisti come Florence Shaw (Dry Cleaning), Billy Nomates ed Amy Taylor (Amyl and the Sniffers), tutta gente che guarda a loro come ad un punto di riferimento.
Dal vivo sono sempre un paradosso vivente: nessuno strumento, solo le basi, mandate di volta in volta da Andrew Fearn, che se qualche anno fa se ne stava tranquillo a sorseggiare una birra e a muovere la testa a tempo, adesso se non altro si è messo a ballare, movenze goffe ma senza dubbio funzionali al contesto. Dall’altra parte, Jason Williamson è una vera forza della natura, un frontman incredibile, magnetico nella sua gestualità minima, un flow da fare invidia ai rapper più navigati, l’accento e lo slang della working class britannica che in teoria crea una distanza culturale incolmabile per noi italiani ma che, come spesso accade con le esperienze comunicative più vere, ce li fa sentire misteriosamente vicini.
Sono di fatto l’antitesi della musica dal vivo, eppure anche così, con pochissimi mezzi, hanno un tiro e una potenza allucinanti e mettono in piedi un concerto magnifico, mandando in visibilio un pubblico che nelle prime file ha pogato dall’inizio alla fine (e dunque in qualche modo falsato il mito che il sold out di oggi fosse solo dovuto alla presenza dei Verdena).
La dimostrazione che, quando si è bravi sul serio, si può far spettacolo con un microfono e qualche base. Successo strameritato, speriamo di rivederli al più presto dalle nostre parti.
I Verdena in questo tour non ero ancora riuscito a vederli, complice una combinazione di fattori che mi ha fatto perdere tutte le date a cui avevo in programma di partecipare. Questo del TOdays, ultimo o quasi appuntamento estivo per i bergamaschi, risulta dunque per il sottoscritto uno dei concerti più attesi dell’anno. Diciamo subito che, durata a parte (poco meno di 75 minuti bis compreso, molto al di sotto del loro standard e decisione francamente incomprensibile, visto che al momento del loro congedo dal pubblico erano solo le 23.15) sono stati incredibili. Esagerando, potrei dire il miglior loro concerto a cui abbia assistito, se non fosse che i paragoni in questi casi sono sempre molto difficili. Avevo sentito commenti poco lusinghieri sui loro show milanesi di novembre ed ero un po’ preoccupato, ma già le prime canzoni, la botta di energia della nuova “Paul e Linda” e la fragorosa cavalcata di “Loniterp” hanno fugato ogni dubbio: precisi, compatti, sporchissimi, i Verdena sono in grande spolvero.
È sempre Roberta Sammarelli il motore del gruppo, non solo a livello di cuore musicale ma anche come collante umano e relazionale, anche questa sera l’impressione è che lo show sia nei fatti diretto da lei. Carlo Maria Toller, membro aggiunto alla chitarra e alle tastiere è quanto mai importante per arricchire lo spettro sonoro e tenere assieme strutture che altrimenti rischierebbero di sfilacciarsi. Alberto Ferrari comunque appare tranquillo e sereno, la voce è potente, la chitarra precisa e ispirata, suo fratello Luca dietro i tamburi fa un lavoro enorme e l’impressione generale è che siano una macchina da guerra molto di più che in passato.
I brani di Volevo magia (ne vengono proposti otto su tredici) funzionano bene e non sfigurano affatto accanto alle gemme del passato. Sporca e mostruosamente potente risulta “Crystal Ball”, la title track è una mazzata ai confini col Punk Hardcore, “Dialobik” conserva tutta la sua tetra follia anche sul palco, mentre quando si lanciano su cose più melodiche (“Sui ghiacciai”, “Cielo super acceso”, il singolo “Chaise Longue”) risultano altrettanto efficaci, anche se a tratti forse un filo meno precisi.
Per il resto, è un susseguirsi di pezzi uno più bello dell’altro, con pochi brani vecchi (“Logorrea” e “Luna”) e molti estratti da Wow, il disco che è un po’ il loro White Album. Sempre belle “Lui gareggia” e “Scegli me”, si capisce che è ancora oggi uno dei loro apici compositivi. Un altro dei lavori più amati dai fan, Requiem, viene valorizzato parecchio, soprattutto con l’esecuzione de “Il Gulliver”, un episodio tra i più belli della loro carriera ma molto poco rappresentato in sede live. Undici minuti intensissimi che sono un po’ la summa della loro scrittura, da momenti di melodie in chiave Alternative a sfuriate Noise, a suggestioni quasi psichedeliche. Una versione memorabile, quasi insperata, da parte di un gruppo che sembra aver conquistato una vera e propria dimensione di maturità.
Chiude “Pascolare” e poi un solo bis, “Miglioramento”, con Alberto al piano e sfumature Sixties ad avvolgere Torino chiudendo questa seconda serata di Festival.
Li ho dovuti attendere a lungo ma l’attesa è stata ripagata: questo concerto dei Verdena me lo porterò nel cuore per sempre. Adesso speriamo solo che non debbano passare otto anni prima del prossimo tour.
GIORNO 3
Domenica piove e lo farà per tutto il giorno ma alla fine è andata più che bene: i violenti temporali previsti per inizio serata non ci sono stati ed i concerti si sono dunque potuti svolgere con regolarità, nonostante il disagio di guardare praticamente tutto sotto l’acqua.
Si parte coi Porridge Radio, decisamente fuori contesto all’interno di una giornata che predilige suoni più ballabili. Dana Margolin si è lasciata crescere i capelli e al primo impatto non l’avevo proprio riconosciuta, ma bastano i primi secondi per capire che la ricetta è sempre quella. Indie Pop da cameretta, alta dose di elettricità, un bel tiro e una grande coesione d’insieme per un quartetto che, nonostante sia atterrato poco prima e abbia avuto poco tempo per settarsi, mostra di divertirsi un mondo.
Io con loro ho qualche problema, nel senso che, pur apprezzandoli sul palco e riconoscendone un certo valore, mi sembrano decisamente sopravvalutati: scrittura piacevole, sì, ma non tale da suscitare tutti questi entusiasmi. È un concerto piacevole, molto tirato e partecipato, con la Margolin che ad un certo punto decide anche di farsi una passeggiata tra il pubblico. Nulla mi leva però l’impressione che siano un gruppo come tanti. Bello il finale con “Back to the Radio”, a mio parere il loro brano più riuscito.
Prima volta in Italia per i londinesi Ibibio Sound Machine, collettivo di sette elementi, alcuni di loro con radici nigeriane, autori di un Afrobeat con accento Funk e con un vestito di elettronica a rendere il tutto più intrigante. Tre album per loro, l’ultimo dei quali, Electricity, è uscito lo scorso anno. Il loro è un set che punta molto sul coinvolgimento del pubblico, la cantante Eno Williams, grande voce e fortissima carica empatica, è mattatrice assoluta di quello che, più che un concerto, pare una festa collettiva. Il pubblico si diverte tantissimo e balla parecchio, incurante della pioggia (che però in questo momento cade molto meno fitta).
Tutto molto piacevole, se non fosse che mancano le canzoni. Con tutto l’armamentario che sfoggiano, tra fiati, tastiere, chitarre e percussioni, sarebbe stato lecito aspettarsi un maggiore sfruttamento dei mezzi a loro disposizione, che invece risultano sempre sullo sfondo, ad accompagnare un’infinita successione di ritmiche, senza che si riesca mai ad afferrare l’identità dei brani. Bravi, ma sfido qualcuno a ricordarseli il giorno dopo.
Discorso totalmente diverso per L’Impératrice, che sono ben contento di recuperare dopo essermeli persi nel loro passaggio al Mi Ami dello scorso anno. Il gruppo francese è all’ultima data di un tour durato ininterrottamente due anni, a supporto dell’ultimo Tako Tsubo, uscito nel marzo 2021. L’inizio è visivamente potentissimo, con i sei che fanno il loro ingresso con un cuore luminoso appuntato al petto, che cambia colore e brilla intermittente sincronizzato ad un battito registrato. Poi tutti ai loro posti e via alle danze con “Off to the Side”. Air, Phoenix, Daft Punk, fusi insieme in una miscela irresistibile di French Disco, Funk, Electro, Cosmic e altre etichette del genere, che comunque risultano tutte riduttive per descrivere un sound che è sicuramente derivativo (sono francesi e lo si avverte in ogni singola nota) ma che è supportato adeguatamente da canzoni meravigliose, suonate da una band pazzesca, dove le tastiere di Charles de Boisseguin e Hagni Gwon dialogano a meraviglia con la chitarra di Achille Trocellier, spinti da una sezione ritmica martellante (Tom Daveau alla batteria e un fenomenale David Gaugué al basso). Bravissima anche Flore Benguigui, simpatica e comunicativa, che guida le danze parlando in un discreto italiano. “Hématome”, “La lune”, “Vacances”, “Vanille fraise”, sono solo alcuni titoli di un repertorio di altissimo livello, che ha fatto ballare ininterrottamente gli spettatori, come se la pioggia non esistesse.
“This is not a regular gig, this is a ritual, this is a prayer”. Sono quasi le 23, l’acqua continua a cadere dal cielo, fa freddo e gran parte del pubblico sembra essersene già andata, almeno a giudicare dai vuoti nella seconda parte del prato, in una giornata che era già comunque quella più bassa a livello di affluenza.
Spiace per chi non ha resistito, perché come Héloïse Adélaide Letissier (ormai conosciuto come Chris) ha tenuto a ribadire dopo qualche canzone, questo non è un semplice concerto. Con il palco decorato da statue neoclassiche, uno spazio rialzato su cui stavano i tre musicisti (batteria, tastiere, chitarra/basso), l’abbondante uso di laser, l’impressione era quella di trovarsi in uno spazio ultraterreno, sorta di dimora di passaggio da dove pare provenire la storia dello splendido e ambizioso Paranoïa, Angels, True Love, doppio concept album ispirato ad Angels in America di Tony Kushner, sul flagello dell’Aids nella comunità gay di New York. Se già il quarto disco di Christine and the Queens sembrava aver portato il Pop in una dimensione “assoluta” mai ancora raggiunta da nessun altro artista (forse i lavori di Arca e Antony Hegarty sono il termine di paragone più appropriato), dal vivo la sensazione è quella di essere davanti ad un’opera d’arte totale, dove musica, teatro, poesia e performative art sono legati insieme ad assicurare un’esperienza immersiva senza precedenti. Chris è pazzesco, sia a livello vocale, sia nella presenza scenica, coi vari brani che non sono solo eseguiti ma che sembrano prendere vita direttamente davanti agli occhi degli spettatori. Una performance molto fisica, dove il linguaggio del corpo ha un suo ruolo peculiare (non a caso per tutta la prima parte resta a torso nudo), musicalmente difficile (un brano come “Track 10”, che è stato tra i punti più alti del set, richiede una certa pazienza per essere apprezzato appieno) ma letteralmente ipnotizzante per chi ha scelto di starci davanti davvero, senza pregiudizi.
Dall’iniziale “Tears can be so soft”, passando per l’epica “Marvin Descending”, la dolcezza di “Full of Life”, o i pattern cupi di “Angels Crying in my Bed”, fino al finale con “Lick the Light Out” e “Big Eye”, è tutta un’unica sinfonia di Pop barocco, canzoni superlative ed esecuzioni sopraffine.
In ambito Pop è tra i migliori della sua generazione, credo non ci sia da discutere, ed è veramente desolante che, a fronte delle platee molto più grandi e prestigiose in cui si è esibito in questi anni, da noi ci fossero poche centinaia di persone, che oltretutto, nella maggior parte dei casi, non sembravano essere lì per lui.
C’è ancora bisogno di tanto lavoro, perché musicalmente parlando (e non solo, ma qui si sta parlando di quello) siamo decisamente un paese di serie Z.
Proprio per questo occorre, in conclusione, rinnovare il nostro plauso al TOdays, tra i pochi appuntamenti in Italia ad unire qualità della proposta ad una non scontatezza sui nomi da coinvolgere. È stata un’edizione di grande successo, non rimane altro che attendere la prossima e sperare che nel frattempo altri scelgano di copiarne il modello.