Forse era scontato che finisse così e in fondo è la logica stessa del funzionamento delle band, degli equilibri che si instaurano di volta in volta, che sono diversi ma che hanno sempre delle costanti precise.
In questo caso, una regola non scritta ma raramente disattesa è che se uno dei componenti emerge prepotentemente sugli altri per carisma, personalità e bravura, quando ancora il gruppo in questione non ha una carriera consolidata, quel componente intraprenderà prima o poi una vita artistica al di fuori del gruppo che, inevitabilmente, cesserà la sua esistenza.
Difficile ricostruire gli ultimi anni delle Savages, sparite dal luglio del 2017, subito dopo il tour del secondo disco “Adore Life” e da allora mai più ricomparse in pubblico. Lo scorso anno avevamo avuto un sussulto quando era stato annunciato che sarebbero state ospiti ad Ossigeno, la trasmissione di Manuel Agnelli, ma poi ci siamo ritrovati le sole Fay Milton e Ayse Hassan, a presentare il nuovo progetto 180dB. Ci fu una piacevole versione di “The Killing Moon” suonata assieme al conduttore e nulla di più.
Nel frattempo Jehnny Beth ha annunciato il suo esordio da solista dicendo che ci stava lavorando dal 2016, subito dopo aver saputo della morte di David Bowie, notizia che l'avrebbe portata a riflettere sul proprio lascito artistico, con l'idea di fare un disco come se fosse l’ultimo della sua vita.
Qualcuno l’avrebbe sconsigliata, ha detto, forse con il dubbio che fosse troppo presto per far fruttare le sue indubbie potenzialità. Lei, dal canto suo, se n'è fregata e non c’è dato sapere che cosa sia successo delle Savages. Semplicemente non ne parla ma da qualche allusione sparsa qua e là è lecito supporre che sia un capitolo chiuso. Del resto giravano voci che nell'ultimo periodo lei e le altre avessero due management separati, cosa che in effetti non è mai buon segno.
Lasciatemi dire in tutta franchezza quello che penso: avrei di gran lunga preferito essere qui a parlare del loro terzo disco. Per quanto la loro cantante ne costituisse il membro più appariscente (chiunque le abbia mai viste dal vivo, sa bene cosa questa ragazza riuscisse a combinare sul palco) era il quartetto nell'insieme ad essere superlativo e a ricoprire, con i due dischi realizzati, un ruolo di tutto rispetto nell'ambito del recupero del Post Punk nel nuovo millennio.
Abbiamo perso un grande act e questo disco solista non riuscirà a rimpiazzarlo, penso sia onesto dirlo.
Camille Berthomier si è in qualche modo riconciliata con le sue origini, con quella Francia che aveva abbandonato all’età di vent'anni, fuggendo in Inghilterra nel tentativo di ritrovare se stessa, al di fuori di un'educazione cattolica nella quale non si riconosceva. Oggi vive a Parigi ed è sempre legata a Nicolas Congé, in arte Johnny Hostile, che le ha dato una mano nella realizzazione dell’album e che ha arricchito con le sue fotografie “Crimes Against Love Manifesto”, una raccolta di racconti a sfondo sessuale che costituirà l'esordio letterario della compagna e che uscirà quest’estate.
“To Love is To Live”, titolo che riecheggia il precedente disco della sua ormai ex band e che riflette, nelle parole dell’autrice, “il caos e la complessità dell'essere umani”, vede un nucleo agguerrito di produttori che annovera pesi massimi come Atticus Ross (l’altra metà di Trent Reznor nei Nine Inch Nails), Romy Madley Croft degli XX, insieme ad un perfetto sconosciuto che si fa chiamare Flood.
Il quartetto (se includiamo anche Hostile) si è preso cura di canzoni che, nonostante un trattamento sonoro alquanto eterogeneo e stratificato, non si discostano poi moltissimo dal marchio delle Savages.
Ci sono suggestioni letterarie in apertura, nel mezzo e in chiusura, con un tappeto di Synth a fare da base alla poesia “A Place Above”, scritta dalla Beth ma recitata dall’attrice Cillian Murphy (Peaky Blinders) che scandisce i punti salienti e fornisce in qualche modo una chiave di lettura (“I am naked al the time, I am burning inside, I am the voice no one can hear, I am drifting through the years, I am the ocean, I am the moon, I'm dying from thirst, (...) I'm sorry for my mistakes” ), nell’idea di accettazione del male, di ogni lato della personalità dell'individuo, anche quelli di cui ci si vergogna o che fanno orrore. Il crescendo pianistico e orchestrale che arriva dopo lo spoken word fa illudere che si tratti di un lavoro più contemplativo ma la sfuriata di “Innocence”, basso e batteria secchi e martellanti, sulla falsariga del Nick Cave più rumoristico, fa capire che le atmosfere non saranno più di tanto diradate, questo nonostante un ritornello che prevede qualche apertura in più.
La successiva “Flower”, che conoscevamo già come singolo, è lenta e cupa, con un cantato sussurrato, un ritornello in stile Siouxsie ed una base ritmica che fonde elettronica e chitarre New Wave. È un brano d'amore atipico, dedicato ad una delle ragazze del Jumbo's Clown Room, un bikini bar di Western Hollywood dove andava spesso quando viveva a Los Angeles ed è pienamente inserita nella narrazione del disco.
Come del resto lo è “We Will Sin Together”, pulsazioni minimali e cori solo fintamente celestiali, a fare da sottofondo ad un ritornello ossessivo e straniante. Forse la migliore del lotto, quella dove il lavoro di songwriting e quello di produzione si equilibrano meglio e sono messi maggiormente a fuoco.
Il singolo “I'm the Man”, che apre idealmente la seconda parte dopo il break di “A Place Above”, è invece solo apparentemente interessante, col suo assomigliare ad una Anna Calvi in chiave Industrial, ma alla fine presumo la ricorderemo solo per il muscolare video in cui la Beth mette in campo il suo talento recitativo in aggiunta ad una bella dose di testosterone da palco.
Sicuramente non manca la volontà di distaccarsi dal passato per esplorare territori diversi: gli archi iniziali che ammantano l’inizio di “The Rooms”, prima che si trasformi in una ballata pianistica alquanto visionaria, o i fiati di “Heroine”, sorta di Jazz vaporizzato e nervoso, sono esempi di soluzioni interessanti anche se messe al servizio di canzoni non perfettamente definite.
Accade un po’ la stessa cosa in “How Could You”, che è stata molto pubblicizzata per la partecipazione (in verità non molto significativa) di Joe Talbot degli Idles e che è probabilmente l’episodio dove si avverte di più il contributo di Atticus Ross. Violenta quanto basta, un eccellente ruolo dei fiati ma arrivati al dunque, non si eleva come dovrebbe.
E quindi alla fine non resta che battezzare “French Countryside”, piano ed elettronica leggera, a metà tra la fine dell'esistenza e il ricordo dell'infanzia (dice di averla scritta durante un viaggio in aereo dal quale si era chissà perché convinta che non sarebbe uscita viva), come uno dei brani che meglio di altri potrebbe fotografare il corso futuro della Jehnny Beth post Savages. Chissà che, in effetti, nel prossimo disco non possa indossare i panni di un crooner al femminile.
A 35 anni, nel mezzo del cammino di dantesca memoria, Camille Berthomier si affranca dal rischio del cliché e dà una svolta alla sua carriera, provando a sdoganare un talento che, tra cinema e scrittura, si era già rivelato come multiforme. Il risultato è buono ma non buonissimo e l'impressione è che ci siano ancora parecchie cose da capire e definire. Può darsi che coi prossimi andrà meglio, nel frattempo diamole fiducia e godiamoci questo.