Fosse stato per Robert Smith, Three Imaginary Boys – parole sue – “sarebbe stato un disco assai diverso”. Col senno di poi, e dall’alto dell’Olimpo pop, ha buon gioco il Nostro nel dire certe cose. Tuttavia il debut rimane, a distanza di oltre trentacinque anni, un oggetto che pur nella sua ingenua pretenziosità conserva ancora un fascino misterioso. Non me ne vogliano gli umbratili estimatori della band (anche perché sono uno di voi) se affermo che, a tratti, risulta oggi più fresco di Pornography o di Faith; pare quasi aver acquisito spessore con gli anni, essersi opposto allo scorrere del tempo, laddove gli altri due (Seventeen Seconds merita un discorso a parte) hanno radici assai profonde – forse troppo – nella loro epoca.
L’esordio dei Cure sulla lunga distanza si apre con un rubinetto che sgocciola. Sono le 10:15 di un grigio sabato sera londinese, sul finire degli anni Settanta. Il punk è già un ricordo, e quello che rimane degli irriducibili si irreggimenterà di lì a brevissimo in uno stile ottuso e rigidamente codificato che darà luogo alla sterile esplosione di creste, leather jackets, borchie e slogan a buon mercato, distanziandosi con goffaggine dall’originario spirito eversivo (più caciarone che anarco-situazionista) per cristallizzarsi in cifra stilistica modaiola.
Forse con prematuro entusiasmo all’epoca qualcuno parlò di Three Imaginary Boys come del “disco che inaugura gli anni ‘80”; e se da un lato, a rileggerla oggi, l’affermazione è facilmente smentibile, non si può negare, dall’altro, che esso sia uno dei dischi che inaugurano il rock britannico post ’77, assieme a una manciata di altri titoli, come The Scream di Siouxsie & The Banshees e Unknown Pleasures dei Joy Division, per citarne giusto un paio.
All’ingenua pretenziosità della copertina (un frigorifero, una lampada e un’aspirapolvere su sfondo rosa) fa da contraltare un corollario di brani – dodici, se non consideriamo il pastiche conclusivo di “The Wedding Burton” – secchi, scarni, essenziali, ai quali difetta soltanto una direzione comune (senza scomodare termini come “concept”, qui fuori luogo) e omogeneità.
Saltella, insomma, anche ritmicamente, di qua e di là, l’esordio, tanto pregno di inquietudine adolescenziale da risultare di difficile catalogazione anche e soprattutto per la critica d’epoca: NME definì i Cure “un abrasivo trio light-metal” e mai definizione fu più maldestra, per quanto pezzi come “Object”, “It’s Not You” e “So What” (quelli che Smith più odiava), destreggiantisi a fatica tra pop-punk e pop-metal, avrebbero potuto trarre in inganno. Ma a orecchie più fini il disco conteneva già, seppure in nuce, qualche minuscola anticipazione sulla direzione che i Cure prenderanno in seguito: “Another Day”, col suo onirico incedere, e soprattutto la title-track proiettavano nel futuro lunghe ombre oscure.
Su queste ombre, Robert Smith costruirà una delle più spettacolari e intense parabole della storia del pop, dando dignità artistica (e successo planetario) non solo ad incubi, visioni e paure che a metà degli anni Ottanta il Nostro, con insospettabile acume commerciale, trasformerà in plaquette parodistiche e furbescamente autoreferenziali, ma anche a melense canzoncine d’amore e felicità che definire stucchevoli è dir poco; il tutto, va da sé, abilmente condito con un tocco magico e ruffiano d’irresistibile melancolia gotico-romantica, retaggio sbiadito delle funeree crisi esistenziali che ammantano claustrofobicamente il triennio ’80-82.
Rapiti dal chiaroscuro dell’immaginario goth – pallore cadaverico, capelli spiritati meglio se corvini, rossetto rigorosamente scarlatto e rigorosamente sbavato, abbigliamento nero, bianco o tutt’al più grigio fumo di Londra -, è facile dimenticare quanto sia brillante e geniale il Robert autore di canzoni: chi ha familiarità solamente coi Cure “classici” (e/o quelli opachi e poveri di idee degli ultimi venticinque anni) potrebbe rimanere sorpreso dall’ascolto di Three Imaginary Boys: il suono, in perfetto stile post-punk, richiama i coevi Buzzcocks e Wire, più che i Joy Division. L’onere/onore dell’apertura è affidato a un micro-capolavoro: “10:15 Saturday Night” è una spigolatura rock che evoca le ansie e le angosce dell’attesa, velenosamente scandita da quel “drip-drip-drip-drip…” alla fine di ogni strofa che rimanda allo sgocciolare del rubinetto. Il sovversivo grido nichilista del “no future” vomitato un paio d’anni prima da Johnny Rotten in faccia alla gioventù britannica, si trasforma nel sussurro esistenzialista di “it’s always the same” di un Robert Smith ancora lontano (ma già sulla buona strada) dall’essere icona dark. Nel magnifico singolo d’esordio, “Killing An Arab”, uscito a fine ’78 e non incluso nell’album, Smith cantava: “Whichever I choose, it amounts to the same: absolutely nothing.” Affiora il topos dell’Assurdo fin dai primi vagiti. Di buon impatto anche le figure minimal di “Grinding Halt”, e degli episodi contigui (più nel suono che nello spirito) al punk, le già citate “Object” e “It’s Not You”, che conservano comunque una vena parodistica e, per fortuna, non si prendono troppo sul serio. Non sono certo questi ultimi due i brani su cui poter costruire una carriera duratura e i “tre ragazzi immaginari” (assieme a Smith, chitarra e voce, ci sono Michael Dempsey al basso e il fido Lol Tolhurst alla batteria) “lo ben sanno”.
Ma, si diceva, l’album contiene anche i prodromi dei Cure a venire e l’intuizione di Smith si rivelerà tanto sconcertante quanto vincente: conquistare il mainstream con nenie funeree e malinconiche. Nel 1979 nessuno ci avrebbe scommesso un penny; nel 1987 i Cure entrano da protagonisti nello stardom internazionale. Fate vobis. “Another Day” e “Three Imaginary Boys” sono, appunto, i brani che aprono un micro-varco spazio-temporale sul futuro. Nella seconda, come già in “10:15 Saturday Night”, Smith regala un minimale assolo pseudo-metal di ragguardevole intensità drammatica già odorante degli inquieti spiriti che di lì a un paio d’anni si manifesteranno compiutamente in Pornography. Il resto dell’album si mantiene su livelli più che buoni, benché il vandalico reggae di “Meat Hook” e l’abominevole barbarie di “So What” rovinino, per così dire, la media, assieme alla ributtante cover di “Foxy Lady” (un massacro, letteralmente), prima e per fortuna unica canzone cantata dal bassista Michael Dempsey.
Dal canto suo, “Subway Song”, posta a chiusura della prima facciata, passerebbe simpaticamente senza colpo ferire, tanto è inconsistente, non fosse per quella trovata (suvvia, abbastanza pacchiana) di quel grido improvviso a brano ormai sfumato che risveglia dal torpore di questo sgangheratissimo blues urbano. “Accuracy” è un’altra piccola perla di minimalismo e “Fire In Cairo” delizia già al primo ascolto. I dodici brani, mediamente buoni e mediamente immaturi, richiamano alla mente le immagini dei lampioni notturni, le uggiose giornate autunnali e i trench grigi, consegnando l’opera – non più punk e non ancora goth – agli annali dei classici post-punk.
L’album era stato anticipato, nel dicembre del 1978, dal singolo d’esordio “Killing An Arab” pubblicato su Small Wonder (minuscola etichetta su cui Chris Parry si appoggiò in attesa di essere pronto con la sua Fiction), fulgida gemma dal sapore mediorientale che trae ispirazione da Lo Straniero di Camus. La scelta di non inserire negli LP i brani editi su 45 giri (almeno in questa primissima fase della carriera) è indicativa di quanto già Smith fosse “scaltro” sia sotto il profilo artistico che sotto quello commerciale. Ma se “Killing An Arab” non avrebbe certo sfigurato su Three Imaginary Boys e, anzi, ne avrebbe elevato la caratura, “Boys Don’t Cry”, il secondo 45 giri dei Cure, sarebbe senz’atro risultato stridente rispetto al tono generale dell’album. La canzone è un’altra gemma di pop purissimo e scintillante: scanzonata eppure malinconica, cantabile, dolce, lieve: “Boys Don’t Cry” è semplicemente un godimento auditivo. Fu però una cocente delusione commerciale, al punto che Smith, non riuscendo a digerire il rospo, si prenderà la sua personale vendetta incidendola ex-novo e ripubblicandola nel 1986 come singolo apripista della raccolta Standing On The Beach – The Singles; e questa volta fu un successo col botto.
Three Imaginary Boys era (e rimane) un disco dagli aromi squisitamente europei: difficilmente il pubblico americano avrebbe potuto apprezzarlo. Chris Parry – non certo l’ultimo arrivato – ne era perfettamente consapevole e credeva, forse non a torto, che i Cure possedessero un buon potenziale commerciale. Decise quindi di produrre una sorta versione americana di Three Imaginary Boys, come si faceva negli anni Sessanta, assemblando brani tratti anche dai singoli.
Il risultato è un prodotto sicuramente più fruibile, che tuttavia manca della già risicata coesione dell’originale: “Jumping Someone Else’s Train” (pubblicato anche come terzo 45 giri) è un’atra piccola perla pop, eccitata e stridente, anche se non possiede l’immediatezza del predecessore; “Plastic Passion” è accattivante quanto basta laddove “World War” è un abominio da dimenticare. L’album/compilation per il mercato americano fu intitolato “Boys Don’t Cry”.