Guidati dall’estro alcolico del cantante e songwriter Shane MacGowan, gli irlandesi Pogues strattonano la tradizione spingendo forte su un’innata attitudine punk rock, e, almeno per un decennio, quello degli anni ’80, si guadagnano la palma di migliori interpreti del genere. Il capolavoro, dopo due album e un Ep, tutti di livello altissimo, arriva nel 1988, quando la band, arruolato il polistrumentista folk Terry Woods, pubblica If I Should Fall From Grace With God. Il disco, prodotto dall’asso Steve Lillywhite, è permeato da uno sgangherato clima cosmopolita, vira più decisamente verso il rock e verso un’inedita varietà stilistica, inzuppa con dosi massicce di whisky il consueto orgoglio irlandese (Streets Of Sorrow/Birmingham Six), ammicca al medio oriente (Turkish Song Of The Damned), gioca con suoni mariachi, in polemica con Elvis Costello, colpevole di essersi sposato l’ex bassista Cait O’Riordan (Fiesta) e abbraccia idealmente tutti i diseredati del mondo con la toccante favola stracciona di Fairytale Of New York.
In una scaletta senza cedimenti, tra canzoni destinate alla leggenda, spunta anche Thousands Are Sailing scritta dal chitarrista Philip Chevron, classico brano minore, che in realtà si rivela tra le cose migliori mai pubblicate dalla band. Una canzone dai forti accenti folk rock, strapazzata dalla voce etilica di Shane MacGowan e pervasa da un sanguigno orgoglio nazionalista.
Dai potenti connotati epici, Thousands Are Sailing è, infatti, un brano che parla di immigrazione, del dolore di allontanarsi da casa in cerca di fortuna, del sudore e del sangue spesi per trovare una nuova collocazione in terra straniera, dei perigli e dell’esito esiziale di tanti viaggi affrontati per giungere in America, vera e propria terra promessa per tanti irlandesi. Un canzone che non è solo una canzone, ma una pagina dolorosa della storia d’Irlanda, un omaggio a coloro che hanno lasciato tutto nella speranza di un futuro migliore e che spesso, troppo spesso, hanno trovato, invece, solo la morte.
Thousands Are Sailing è, quindi, la voce di una nazione che riflette sul proprio passato, è il lamento universale di chi ha perso i propri affetti più cari e abbandonato l’amata patria, è la restitutio ad integrum di un’identità nazionale smarrita e di un orgoglio ferito, è la storia di tanti uomini dai volti sconosciuti, che ora dimorano, dimenticati, nei cupi abissi dell’Oceano.
La meta della migrazione è ovviamente l’America: “L'isola è silenziosa adesso, ma i fantasmi perseguitano ancora le onde. E la torcia accende un uomo affamato, che la fortuna non poteva salvare”. Un verso epico, i cui riferimenti storici sono palesi. La torcia, che evoca la Statua della Libertà e, soprattutto, l’isola, che è la Ellis Island del porto di New York, la più trafficata stazione di ispezione per immigrati degli Stati Uniti, dove, tra il 1892 e il 1924, furono schedati e processati circa dodici milioni di immigrati.
Cristallizzato il momento storico, il testo si sofferma sulla sorte degli immigrati, disposti a tutto pur di sbarcare il lunario, spesso costretti a lavori umili e spossanti o arruolati nelle forze dell’ordine (“Hai lavorato alla ferrovia? Hai liberato le strade dal crimine?”). Il dolore e la nostalgia di casa, però, sono una costante e non lasciano scampo, quando il pungolo ritorna, dolce amaro, insieme al ritornello di quelle canzoni legate indissolubilmente all’Irlanda (“Le vecchie canzoni ti facevano ancora piangere?Hai contato i mesi e gli anni o le tue lacrime si sono asciugate rapidamente?”).
Molti ce l’hanno fatta, sono riusciti a cambiare la propria vita e a regalarsi un futuro migliore, in cui la fame e la povertà sono solo un lontano ricordo. Ma molti, a migliaia, sono morti durante la navigazione, dispersi nelle acque gelide dell’oceano, volti cancellati dal tempo, storie di speranze frustrate e di morti premature. E’ uno di questi morti, un fantasma, a prendere la parola, facendosi portavoce per tante vite spezzate: “Su una nave bara sono venuto qui, e non sono mai arrivato così lontano“. E Ancora: “Migliaia stanno navigando, dall'altra parte dell'oceano occidentale verso una terra di opportunità, che alcuni di loro non vedranno mai”.Il fantasma, colui che racconta, è uno dei tanti dispersi in mare o morto durante la navigazione su questa navi, chiamate navi-bara. Ricostruzioni storiche hanno documentato che il tasso di mortalità durante questi viaggi era addirittura del 30%: uno su tre non ce la faceva.
La canzone, quindi, prende una risolutiva svolta temporale e la narrazione si sposta in tempi più recenti, evidenziati dai tanti riferimenti contenuti nel testo (JFK, Brendan Behan, etc). Cosa è cambiato? L’immigrazione resta una costante, ma adesso il protagonista della canzone vive in condizioni migliori e soprattutto non ha dovuto affrontare un viaggio pericolosissimo per arrivare in America. Non è però tutto rose e fiori. Il protagonista è, infatti, un immigrato clandestino: l'Immigration Reform and Control Act, datato 1986, impose, infatti, delle vere e proprie quote per gli immigrati irlandesi, assegnando "carte verdi" tramite un sistema di lotteria (“la mano dell’opportunità estrae biglietti in una lotteria”). Chi parla, adesso, è quindi un immigrato clandestino, che non è riuscito ad ottenere la green card. Un uomo devastato dalla nostalgia (“Quando sono tornato nella mia stanza vuota, suppongo di aver pianto”), che vive nascosto per non essere catturato ed espulso (“dalle stanze la luce del giorno non vede mai”).
I versi finali sono tutti dedicati alla terra natia, descrivono il carattere e lo spirito degli irlandesi, che affrontano un destino infame con il sorriso sulle labbra (“dove andiamo festeggiamo, la terra che ci rende profughi”) e tirano una feroce stoccata alla Chiesa Cattolica, uno dei motivi che spinge tanti a scappare da casa (“Dalla paura dei preti con i piatti vuoti, dal senso di colpa e dalle effigi piangenti”). Una canzone tragica, dolorosa, che mette il dito nella piaga dell’immigrazione, raccontata dal punto di vista di chi ha provato il pane duro della miseria, l’umiliazione, il dolore delle privazioni, la speranza di una vita migliore, spesso vanificata. Una canzone, però, che si chiude con un filo di speranza, perché quegli uomini, vilipesi, frustrati e oltraggiati, hanno ancora la forza di sorridere e tirare avanti: “Still we dance to the music, and we dance”. Siamo irlandesi, non ci arrendiamo, noi balliamo sulla nostra miseria.