Dennis Wilson, la pecora nera dei Beach Boys, il bello, il surfer, il cocainomane, l'eroinomane, l'alcolizzato, il donnaiolo, un ragazzo in balia dei propri istinti contraddittori e della propria genetica incapacità di convivere con il successo, il denaro, la notorietà.
Guardate i suoi occhi sulla copertina di Pacific Ocean Blue. Sono occhi che non lasciano scampo e ti inchiodano a quello sguardo. Occhi che evocano un’immensa tristezza, che presentano il conto di una vita di solitudine ed eccessi. Occhi che indagano l'orizzonte con mille domande, sognano la libertà, o forse aspirano solo a una via di salvezza. Cercano l'onda, soprattutto, quell'onda che per Dennis spesso ha rappresentato l'unica gioia di una vita più subita che vissuta. Sono gli occhi di chi conosce l'oceano e dall’oceano ha ricevuto tutto, un inizio, una fine, un destriero da domare, un destino di canzoni da spiaggia, la pace interiore, la pace eterna, l'equa transazione di un'esistenza consegnata alle acque in cambio di un respiro di adrenalina.
Dennis Wilson in piedi sulla sua tavola da surf si sentiva il padrone del mondo, l'unico artefice della propria fortuna, esule felice, in fuga da un mondo che non lo capiva e che lui non era abbastanza forte da dominare. Quando, invece, rimetteva i piedi per terra, tornava a essere un grumo di insoddisfazione e autolesionismo, agnello sacrificale sull'altare della droga, un buon musicista, certo, ma non abbastanza geniale e raffinato da ritagliarsi un ruolo centrale in quei Beach Boys, che erano la proprietà esclusiva del genio onnivoro e folle del fratello Brian.
Dennis era un uomo incapace di reggere il peso del destino e del nome che portava, costretto in quel ruolo marginale di attore non protagonista che doveva apparirgli terribilmente umiliante, terrorizzato soprattutto delle ansie che gli derivavano dall’essere un mitico Ragazzo Di Spiaggia, ma anche la copia sbiadita di Brian. Trovava pace solo respirando l’odore del mare, immergendosi nel suo oceano, stando in equilibrio precario su quella tavola, su cui rischiava l'osso del collo, ma che non tradiva mai, restituendogli il riscatto di una (almeno) parziale redenzione.
Amico di Charles Manson, di cui capì solo in ritardo la follia e le derive omicide, sposo cinque volte "di cinque donne", come era solito raccontare, "che non mi hanno mai amato veramente", anima tormentata, perennemente in fuga da tutto, risucchiato dal baratro di una solitudine feroce, nutrita a dosi copiose di eroina e alcol, Dennis Wilson morì a trentanove anni, affogato nelle acque di quell'oceano che amava più di ogni altra cosa.
Pacific Ocean Blue ci restituisce il corpo e la voce di Dennis, i suoi occhi tristi e la sua musica in solitaria, che, a posteriori, appare un lascito di gran lunga più prezioso di quella militanza marginale nei Beach Boys, che gli regalò il successo e un posto nella leggenda, ma per converso tanto lo afflisse. Un disco, sia chiaro fin da subito per evitare fraintendimenti, anni luce lontano per indole dal divertissement surf dei Beach Boys e dall’art rock, colto, raffinato e avanguardistico, del fratello Brian.
Un'opera, semmai, capace di dare voce, in modo diretto e sincero, al dilacerante tormento interiore che lo divorava, mutuando, soprattutto dal rock, un’urgenza espressiva assolutamente in linea con la sua indole autodistruttiva. Canzoni, quelle contenute in Pacific Ocean Blue, che descrivono, con nostalgica visione crepuscolare, la fine del sogno californiano (il declino dei Beach Boys e l’avvento del punk, che in quegli anni stava spazzando via tutto ciò che trovava sul suo cammino): una sorta di Mercoledì Da Leoni del rock, in cui, con disperata rassegnazione, Dennis Wilson racconta il tramonto privato ed epocale di un uomo e della sua generazione. In un caleidoscopio musicale di suggestioni che abbracciano il gospel e il soul, la psichedelia e il rock, il pop e il blues, Dennis scrive una sorta di diario di bordo a ritroso, una pagina di ricordi su un’epopea appena conclusasi e destinata a essere risucchiata dal passo veloce della Storia.
Pacific Ocean Blue suona allora come un (involontario?) testamento, come il canto del cigno di chi, per un’ultima volta, prova ancora a dare lustro a un'epoca che, suo malgrado, è volta al termine. Sono, queste, canzoni fortemente legale al contesto storico e geografico in cui nascono, eppure al contempo dotate di un linguaggio che universalizza la perdita dell’innocenza e quegli struggimenti feroci legati al passare di un tempo che non tornerà più.
E' sufficiente ascoltare Thoughts Of You, che qualcuno ha mirabilmente definito come i tre minuti più tristi della storia del pop, per svelare l’anima di questa raccolta, in cui la salsedine si fonde col rock e con barbagli di luce, ma in cui tutto suona inesorabilmente nostalgico, passè, finito. Una musica nuda, che non cerca artifici se non la semplice tristezza di una voce che si insinua sotto pelle, che coinvolge l’ascoltatore in un gioco di immedesimazioni, che allude al mare, all’interminabile respiro dell’orizzonte, alla salsedine che infradicia le nostre inconsolabili solitudini, alla fine (di tutto). Guardate quegli occhi in copertina e non perdetevi l'oceano che contengono. Abbandonatevi a Toughts Of You come vi abbandonereste al flusso dei vostri più intimi pensieri: sarà come cavalcare the big one, l'onda giusta, quel muro d’acqua e adrenalina che è il Santo Graal di ogni surfer. E quando vi troverete sulla cresta di questa canzone, ci sarà un attimo, un breve istante, in cui vi sentirete perfettamente liberi e soli. Intorno a voi, solo l’Oceano.