Sarò cattivo ma è così: l’ex The Frames ha raggiunto il grande pubblico grazie al film “Once” e alla sua splendida colonna sonora nella quale, appunto, c’era incluso pure quel brano, che ha vinto un Oscar e che ha fatto definitivamente svoltare la vita dell’artista irlandese. Tutto quello che ha fatto successivamente utilizzando il proprio nome in copertina, per quanto di ottima fattura, non ha avuto lo stesso impatto, la stessa forza iconica.
Sono abbastanza sicuro di averlo già scritto nella recensione del disco precedente ma me ne frego, tanto chi se la ricorderà, quella recensione? Quindi lo ripeto e ci aggiungo anche una buona dose di snobismo (che non fa mai male): Glen Hansard lo conoscete tutti perché avete visto quel film e poi, in tempi più recenti, perché vedete un sacco di video di lui che fa il busker ad ogni ora del giorno, nei luoghi più improbabili e con chiunque si trovi a passare di lì per caso. Avete tutti condiviso la bellissima storia del suo concerto privato in quel negozio di dischi a Lucca, e poi quella dove ha cantato per gli operai dublinesi in sciopero, poi siete andati tutti in delirio per le sue esibizioni insieme ad Eddie Vedder, siete caduti ai suoi piedi magnificando le sue doti di performer, di artista umile, generoso, autentico uomo del popolo cresciuto in strada, rimasto in strada anche dopo essere diventato famoso e aver fatto i soldi. Ma di canzoni sue, scommetto che non me ne sapreste citare neppure una, neanche se steste un anno intero a spremervi le meningi.
E qui viene il bello: è colpa vostra o colpa sua? Secondo me di entrambi, anche se in modi diversi: è colpa vostra perché siete sentimentali e superficiali, perché giudicate gli artisti per la loro attitudine e la loro simpatia, che poi scrivano bene o male non ve ne frega nulla, l’importante è che siano un bel soggetto per i vostri post. Colpa sua perché, mi dispiace, ma sono costretto a dare ragione a quello che un mio amico (con cui non sono quasi mai d’accordo, quando si parla di musica) mi ripete ormai da anni: “Glen Hansard, grandissimo performer, songwriter mediocre”. Ecco, ho sempre pensato fosse esagerato anche perché i suoi primi lavori solisti erano decisamente buoni, soprattutto il primo, “Rhythm and Repose”. Poi ha iniziato a ripetersi un po’ troppo, a scrivere cose sempre meno memorabili e mi sono dovuto ricredere.
In generale, però, è sempre stato così: per lo meno in Italia, chi va a vedere Glen Hansard lo fa per il suo passato e per quello che il suo personaggio rappresenta, non certo per il suo repertorio.
E la colpa, ripeto, è un po’ anche sua. Perché sicuramente ha talento, sicuramente sa cosa vuol dire scrivere un bel pezzo, ma il guizzo definitivo, quello che ti fa realmente esclamare: “Questo sì!”, ecco, quel guizzo ce l’ha avuto sempre molto raramente; probabilmente mai, da quando pubblica a suo nome.
Ecco lo spirito con cui mi accosto a “This Wild Willing”. Che è il suo quarto disco da solista e che arriva due anni dopo quel “Between Two Shores” che ha entusiasmato tutti gli amanti del New Folk più classico e lineare, perché in effetti era un lavoro semplice, accessibile e perfettamente in linea con l’immaginario comune del busker dublinese che “Once” ha contribuito a trasmetterci.
Per cui diciamo subito che la prima cosa positiva di questo nuovo album è che è completamente diverso da quell’altro.
La genesi l’ha spiegata lui stesso in diverse interviste: nel luglio del 2017, appena terminato il tour assieme ad Eddie Vedder, con un disco già finito ed in procinto di essere pubblicato, si trovava a Parigi, ospite del Centro Culturale Irlandese, con l’idea di buttare giù idee per un nuovo disco. L’idea era quella di realizzare un disco acustico, che contenesse una serie di interventi da parte di alcuni dei musicisti che lo seguono da sempre sul palco: il bassista Joe Doyle, la pianista e cantante ROMY e il chitarrista Javier Mas.
Succede però che una sera a cena l’amica Judith Mok, anch’essa cantante e musicista, gli presenta i fratelli Khoshraveshs (Pouyã, Mãni e Nimã), provenienti da una storica famiglia di musicisti iraniani, da tempo trapiantanta in Francia. Vedendoli suonare quella sera, con tutto il loro armamentario di strumenti tradizionali, Glen capisce di volerli nel suo nuovo disco, glielo propone e loro accettano immediatamente.
A quel punto però, l’intuizione: unire il Folk irlandese con quello persiano non sarebbe stato un po’ troppo banale? Non si rischiava forse di uscire fuori con un semplice lavoro da etichettare come “World Music”, senza né arte né parte? Da qui, la scelta di coinvolgere anche due musicisti elettronici di Dublino, Dunk Murphy (Sunken Foal) e Deasy, per provare a far prendere ai pezzi anche altre direzioni. Nei mesi successivi, con l’aggiunta di Graham Hopkins ed Earl Harvin alle batterie e alle percussioni, di Michael Buckley ai fiati, di Breanndán Ò Beaglaoich all’accordion e di Rosie McKenzie al violino, è apparso chiaro che l’originario progetto del disco acustico con pochi intimi era naufragato. Al suo posto, una squadra di persone che, sapientemente dirette dal solito David Odlum nei Black Box Studios di Noyant-la-Gravoyère, sempre in Francia, ha dato vita ad un’opera dove, più che la pianificazione a tavolino di ogni singolo dettaglio, hanno dominato l’improvvisazione, l’ispirazione del momento, l’intuito e le connessioni istantanee che si originano tutte le volte che dei musicisti che condividono lo stesso orizzonte si trovano insieme a lavorare su qualcosa.
Quel desiderio selvaggio evocato dal titolo, dunque, potrebbe anche essere questa cosa qui: comporre musica in perfetta libertà, mischiando la Persia con l’Irlanda, l’elettronica con i fiati, il realizzare qualcosa di bello come unico obiettivo.
Il risultato finale, ancora una volta, è controverso. Diciamoci la verità: questo avrebbe potuto essere il capolavoro di Glen Hansard, il suo disco più profondo, più elegante, un disco da cantautore vero, da songwriter di razza sulla scia di Tom Waits, Leonard Cohen o Nick Cave.
L’intenzione appare quella sin dalle prime battute: sono pezzi calmi, tristi, dove il sovrapporsi dei diversi strati di strumenti non coincide mai, se non in pochissimi casi, con quelle esplosioni che sono proverbiali della sua scrittura.
È un disco dove non urla quasi mai, non sale di tono, ma canta tutto in maniera sussurrata, con un crooning malinconico e fumoso. È un disco di narrazioni, di placidi monologhi, non più di battagliere dichiarazioni d’intenti come potevano essere i precedenti.
Al primo ascolto, lo dico subito, è un disco che spiazza: non c’è neppure un brano che possa essere fruito nell’immediato e sembra tutto fatto apposta per confondere le idee a tutti coloro che avevano apprezzato il precedente e che sono dominati dalla figura di “Glen Hansard il busker”.
Nella prima parte, comunque, è un gran disco: i vari elementi sonori si combinano tra loro in modo elegante, le melodie sono indovinate e da certe canzoni emana davvero un senso di consapevolezza autentica, come quasi mai in passato.
Prendete il primo singolo, “Fool’s Game”, con quel crescendo pazzesco e intensissimo, l’unico momento in tutto il disco in cui Glen tira fuori la voce come ai vecchi tempi, con quei fiati che doppiano le chitarre, su un tappeto sonoro di autentica potenza. Poi si ferma tutto e così, dalle ceneri di quell’edificio che era stato costruito per poi sbriciolarsi, esce la voce celestiale di Aida Shahghasemi, anche lei persiana, che canta nella sua lingua una poesia su una donna che si ritira nel deserto per sopportare l’assenza dell’uomo che ama. Non c’era nessun programma di avere una voce femminile sul disco (anche Marketa Irglova, vecchia compagnia d’avventura, è arrivata in un secondo momento) e neppure lei, una volta utilizzata, sapeva che avrebbe cantato quel pezzo. Inutile dire che in questo caso, seguire l’istinto ha prodotto un gran risultato.
Stessa cosa per “Don’t Settle” e “Race to the Bottom”, che sono davvero belle composizioni, dense di una grandeur epica che nei pezzi di Hansard ritroviamo raramente.
Ma anche l’opener “I’ll Be You, Be Me”, cantata in punta di piedi e intrisa di sofferenza, a raccontare tutto il dolore, la difficoltà, la sfida di amare un’altra persona ma anche lo stupore di confondersi con l’altro, di divenire una cosa sola con lui (“I’ll be you, be me and I’ll be you, I’ll take your truth, your lies, your secrets, how ‘bout you be me and I’ll be you, I love your strength, your pride, your weakness”).
Fosse stato tutto così, staremmo facendo tutto un altro discorso, useremmo forse parole come “consacrazione” o “prova di forza definitiva”. La verità è che fino a “The Closing Door”, lunga litania con scuri inserti di elettronica a fare da contrappunto alle chitarre acustiche, rimane un lavoro di alto, a tratti altissimo livello.
Dopo però, si sprofonda nel baratro della noia. L’andamento dei brani successivi è sempre un po’ troppo monocorde, i cambi di dinamica al loro interno sono ridotti al minimo, le melodie non sono più così indovinate e, particolare non trascurabile, la lunghezza media risulta davvero eccessiva. Valga su tutte “Weight of the World”, che con i suoi 7 minuti e 30 non parte mai ed è di una noia totale. Stesso discorso per “Good Life of Song”, che gioca la carta Irish ma senza riuscire a colpire davvero nel segno, nonostante un testo sincero che parla di strada, di vita e di canzoni, in perfetto stile Glen Hansard.
Anche la conclusiva “Leave a Light” è una classica ballata Folk e allora viene quasi il sospetto che, andando verso la fine, all’ex The Frames sia venuta la voglia di ricongiungersi alle sue radici, di dimostrare a se stesso e al pubblico che un certo tipo di scrittura è ancora nelle sue corde. Canzone gradevole, nulla di eclatante ma probabilmente il congedo migliore per un disco come questo, un canto di separazione, con dentro la promessa di rivedersi presto (“And leave a light on in your lonely window and a heartfelt welcome in your eye. From far away on the deep black ocean, you’re the one I’ll come back to find”).
Un disco riuscito a metà, purtroppo, dove i momenti di illuminazione non riescono a compensare del tutto quelli di stanca, all’interno di una durata complessiva francamente esagerata: 65 minuti, mi spiace, sono troppi, con un andamento così discontinuo.
Ci consoleremo vedendolo dal vivo quest’estate: sotto questo aspetto, Mr. Hansard rimane un fuoriclasse assoluto…