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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
07/01/2025
Marillion
This Strange Engine
Edizione curatissima quella che earMUSIC ci regala per This Strange Engine dei Marillion. Un libretto ricchissimo di foto e liner notes dettagliate relative al periodo, contenuti speciali, un concerto inedito e non solo. Un prodotto imperdibile per i fan e un caldo consiglio per chiunque fosse amante del Prog e volesse andare oltre il (fin troppo) celebrato periodo con Fish.

È il solito discorso ma ogni tanto vale la pena ritirarlo fuori: ci sono band che, al di là dell’ambiente ristretto o meno dei propri fan, sono conosciute da addetti ai lavori e pubblico generalista solo per la solita trafila di luoghi comuni. Nel caso dei Marillion la situazione è ancora più grottesca: la band britannica si è ritagliata uno spazio consistente nella storia della musica Prog grazie ai primi quattro dischi con Fish dietro al microfono (Script for a Jester’s Tear e Misplaced Childood i due più celebrati) ma di tutto quello che è venuto dopo (quasi quarant’anni di carriera e quattordici dischi con Steve Hogarth ben saldo nel ruolo di frontman) viene detto poco o nulla, nonostante la qualità di certe uscite non abbia nulla da invidiare ai lavori più iconici.

Ecco perché la serie di ristampe dal catalogo del gruppo portata avanti attraverso earMUSIC è particolarmente preziosa: ci permette di ritornare su album che all’epoca furono ignorati o, che forse è peggio, liquidati come l’ennesimo parto di un gruppo che, fatta eccezione per lo zoccolo duro della fanbase, era ormai poco o per nulla rilevante.

 

This Strange Engine, poi, è particolarmente significativo, per il contesto in cui si sviluppa: i Marillion erano infatti appena stati scaricati dalla EMI, che aveva fin lì pubblicato tutti i loro dischi. La major aveva mal digerito l’abbandono di Fish e aveva tenuto il gruppo nel proprio roster solo di malavoglia, ritenendo che il successo commerciale ottenuto da brani come "Kaleigh" e "Sugar Mice" fosse esclusivamente da ascrivere al carisma del singer (a cui infatti fu offerto immediatamente un deal prestigioso per la sua futura carriera solista, che tuttavia non decollò mai).

Un lavoro ostico e ambizioso come Brave, che è tutt’oggi annoverato tra i capolavori assoluti della band (forse l’unico capitolo veramente apprezzato anche al di fuori della cerchia dei fan) ma che all’epoca vendette pochissimo, portò i rapporti con l’etichetta ai minimi storici, con la rottura consumatasi definitivamente all’indomani del successivo Afraid of Sunlight, nonostante il carattere ben più conciso ed immediato delle nuove canzoni (il singolo “Beautiful”, ad esempio, avrebbe avuto tutte le carte in regole per diventare una hit, ma la EMI non ci credette mai).

Il nuovo contratto con la Castle Communications di Dougie Dudgeon e Jon Beecher, indipendente e con molte meno disponibilità economiche rispetto al colosso EMI, condusse il gruppo in una fase completamente nuova della propria carriera, dove a fare la differenza fu soprattutto il rapporto di fedeltà instaurato coi fan nel corso degli anni.

 

This Strange Engine fu composto a partire da idee abbozzate e mai completate risalenti al periodo dei due precedenti lavori e dal punto di vista strettamente musicale non è poi così diverso da Afraid of Sunlight, mostrando cioè un gruppo che aveva rinunciato alle divagazioni e ai tempi dilatati per concentrarsi maggiormente sulla forma canzone e sull’immediatezza delle melodie.

Ne costituisce una prova lampante già l’iniziale “Man of a Thousand Faces”, che inizia con plettrate vigorose di chitarra acustica, ha quelle atmosfere da songwriting americano che caratterizzavano il primo disco dei Counting Crows (molto amato da Steve Hogarth all’epoca), e in generale rimarrà uno dei brani più orecchiabili in assoluto nello sconfinato repertorio dei nostri. Il testo è del paroliere John Helmer, con cui per questo disco Hogarth ha lavorato a stretto contatto.

Ci sono altri momenti di grande ispirazione, come “Estonia”, con la sua elegante apertura orchestrale, un brano insieme sontuoso e malinconico, ispirato alla tragedia della nave MS Estonia, naufragata nel mar Baltico il 28 settembre 1994, in quello che è ancora oggi il peggior disastro marittimo del Ventesimo secolo dopo quello del Titanic. Ennesimo esempio di grandezza compositiva da parte di un gruppo che nel dopo Fish ha saputo trovare nuova linfa vitale, è tuttora un classico nelle esibizioni live.

 

Bella e toccante è poi “80 Days”, una ballata semi acustica concepita come una sorta di tributo ai loro fan più affezionati, l’idea per la quale è venuta a Hogarth dopo averli visti in coda sotto la pioggia in attesa di un concerto all’Astoria di Londra. È un pezzo semplice, senza troppi sussulti, ma funziona molto bene, seppure nel documentario allegato a questa edizione deluxe abbiano raccontato divertiti che sembra piacere molto più a loro che al pubblico, dato che quelle volte in cui la suonano non ricevono reazioni particolarmente entusiaste.

“Memory of Water” è un pezzo abbastanza inusuale per i loro standard, una ballad in stile Folk medievale con un accompagnamento scarno e la voce in evidenza, una di quelle gemme nascoste del loro catalogo che è stata dimenticata quasi immediatamente (anche da loro stessi, che la suonano molto raramente dal vivo) e che invece andrebbe riscoperta.

 

Il vero highlight del disco è però la title track, posta significativamente in chiusura: una composizione da 17 minuti, costruita sul modello di una suite, con poche parti esplicitamente Progressive (anche se tra assoli di tastiera, chitarra, e persino uno splendido inserto di sax nella parte centrale, il respiro è un po’ quello) che racconta la storia del padre di Steve Hogarth, che quando il cantante era ancora piccolo ha lasciato il lavoro in marina, che lo portava in ogni parte del mondo tenendolo molto tempo lontano da casa, per lavorare nella miniera di carbone della sua città natale, in modo tale da poter stare di più con la propria famiglia. Un sacrificio, questo, che il figlio ha compreso davvero solo in età adulta, arrivando così a voler scrivere un brano per – sue testuali parole – “fargli sapere che è un uomo molto migliore di quanto io potrò mai essere”. Si tratta probabilmente di una delle composizioni migliori dei Marillion post Fish, sullo stesso livello di Brave ed eguagliata in futuro solo da quell’altra suite pazzesca che sarà “Ocean Cloud”.

In mezzo ad una tale abbondanza di qualità, possiamo pure perdonare tre brani non esattamente all’altezza della fama del gruppo: “One Fine Day”, “Hope for the Future” e “Accidental Man”, per quanto gradevoli (soprattutto quest’ultima, con un certo feeling Blues) somigliano più che altro a delle outtake, scorrono via indisturbate e si fa piuttosto in fretta a dimenticarle (la stessa band, interpellata a proposito nel documentario allegato, ha dichiarato che oggi non li inserirebbe più in scaletta).

 

Con Dave Meegan, l’artefice del sound di Brave, ancora dietro la consolle, seppur solo in fase di missaggio (la Castles non poteva permettersi di pagarlo anche per il lavoro di produzione) This Strange Engine rappresenta un’ulteriore conferma dell’ispirazione del gruppo, che che non verrà mai veramente meno nel corso degli anni (dischi deboli, nella loro produzione, non ce ne sono proprio) e allo stesso tempo, grazie alla fine del rapporto con la EMI, aprirà un nuovo capitolo nel rapporto col pubblico: i Marillion furono infatti i primi ad utilizzare il crowdfunding (finanziarono con questo sistema il tour americano di supporto al disco) e a comprendere in anticipo le potenzialità della rete, all’epoca ancora in fase embrionale.

Con l’avvio, poco tempo dopo, della loro etichetta personale, la Racket Records, Steve Rothery e soci riuscirono ad emanciparsi del tutto dalle logiche di mercato esterne: oggi sono di fatto a capo di una comunità che include decine di migliaia di fan affezionati, che comprano la musica dei loro beniamini direttamente alla fonte, risparmiando anche parecchio sui costi.

 

Come al solito, anche questa edizione è fisicamente curatissima, con una confezione in formato book contenente un libretto ricchissimo di foto e liner notes dettagliate relative al periodo. I contenuti speciali includono ancora una volta un concerto inedito dell’epoca (Grand Rapids, in Michigan, poche settimane prima dell’uscita dell’album), una versione totalmente remixata della tracklist originale (che non aggiunge molto, bisogna dire) ed il consueto Bluray con demo ed improvvisazioni varie, il documentario dove i cinque Marillion raccontano l’album dalla prospettiva odierna, ed il bootleg di un concerto a Ultrecht, sempre di quel tour (immagini di qualità amatoriale ma audio molto buono).

Prodotto imperdibile per i fan (e non c’è bisogno che glielo dica io) ma indicato anche per chi volesse andare oltre il (fin troppo) celebrato periodo con Fish.