Dopo una trilogia la cui fama è tutta italiana e che a detta di molti rimane finora il corpo migliore dell'opera del regista napoletano (L'uomo in più del 2001, Le conseguenze dell'amore del 2004 e L'amico di famiglia del 2006, opere che colpevolmente ancora non ho avuto modo di gustare), arriva il successo clamoroso de Il Divo che mettendo al centro della narrazione la figura inconfondibile di Giulio Andreotti ottiene riconoscimenti anche all'estero rendendo Paolo Sorrentino l'autore di fama mondiale che è ancora oggi. Questa fama internazionale porta ovviamente contatti, lusinghe, un'ampliamento degli orizzonti e in particolare la richiesta di collaborazione da parte di un grande artista: Sean Penn. Quando uno come Sean Penn ti chiede di collaborare cosa puoi fare? Gli cuci addosso un film, vai per la prima volta a girare in America e a confrontarti con l'industria Hollywoodiana, magari smorzi i tuoi lati più personali per aderire a una narrazione più lineare, che seppur intrisa di personalità possa comunque soddisfare un pubblico più ampio possibile. Ad ogni modo il talento resta, la visione anche, il film che ne esce non è affatto banale pur non essendo, diciamocelo onestamente, all'altezza di altri film del regista. Subito dopo questo piccolo Calimero, Sorrentino sfornerà infatti due capolavori acclamati ovunque come La grande bellezza e Youth - La giovinezza, film entrambi di una rara bellezza che offuscano anche ciò che di buono c'era nel loro predecessore.
This must be the place è un film che al termine della visione non lascia quel senso di pienezza quasi stordente, di appagamento totale e di soddisfazione che lasciavano altri titoli del regista, nonostante alla fine il viaggio non sia stato così malvagio. Perché quello di Cheyenne (Sean Penn) è un vero e proprio viaggio, This must be the place da un certo punto in avanti si trasforma nel classico road movie di formazione (non di un ragazzo ma di un uomo che forse uomo non è diventato mai veramente) in movimento tra i territori di un'America vastissima. Il protagonista è un uomo ormai di mezza età che in gioventù è stato un celebre cantante di una band rock dai risvolti dark, Cheyenne continua ad andare in giro agghindato come faceva quando era sulla cresta dell'onda: capelli disordinati e tinti di nero, rossetto marcato sulle labbra, vestiti improbabili, occhi resi scuri dal trucco e un peso costante ad accompagnarlo, sia fisico che metaforico. Cheyenne si porta dietro un orribile carrellino per la spesa lungo le strade della sua Dublino, città dove risiede, quando arriverà in America si trascinerà dietro un trolley da viaggio, controparti reali di un peso che grava sul suo cuore e di cui non riuscirà mai a liberarsi, un peso che sarà motore per alcune delle sequenze più belle del film. L'uomo è rimasto ancorato al passato pur rinnegandone quella che di quel passato è stata la parte fondamentale per lui: la musica. Un trauma, un evento tragico ha segnato forse per sempre Cheyenne mettendone in prospettiva il successo e il talento, in questo senso è emblematica la scena in cui il protagonista ha uno scambio di battute con David Byrne (nel ruolo di sé stesso), un passaggio fondamentale per inquadrare meglio Cheyenne. La sua esistenza monotona, ravvivata dalla moglie amatissima (Frances McDormand) e dall'amica Mary (Eve Hewson), viene scossa dalla notizia dell'imminente morte del padre ormai in fin di vita, un padre con il quale i rapporti si sono interrotti da molto tempo, un padre ossessionato dalla ricerca di un criminale nazista (Heinz Lieven) che in passato fu suo carceriere in un campo di prigionia. Nasce in Cheyenne il bisogno di continuare e portare a termine quel compito che il padre si era dato, inizia così un viaggio che porterà Cheyenne ad attraversare gli spazi di un'America di provincia che contribuirà, grazie agli incontri che porrà sulla strada del protagonista, alla sua tardiva maturazione.
Sorrentino costruisce alcune sequenze indubbiamente toccanti e significative, quella con Byrne alla quale si accennava prima o l'esecuzione del brano dei Talking Heads che dà il titolo al film, lascia da parte in larga misura la visionarietà e il divagare sublime della sua camera a favore di un approccio più concreto, funzionale ma sicuramente molto meno affascinante. Anche i pensieri che vagano sulle note delle immagini del regista qui sono per lo più imbrigliati sulla figura di Penn che offre una prova di contenimento caratterizzando un personaggio con una mimica trattenuta e minimale, un personaggio che probabilmente ricorderemo più del film stesso. Il viaggio è scandito da una colonna sonora delicata e, come Sorrentino vuole, molto indovinata, composta e curata in gran parte dallo stesso David Byrne, inoltre la meta, il finale non delude ma regala anche un attimo di lucida cattiveria che non guasta nell'economia della storia. Non il miglior film di Sorrentino, questo è fuor di dubbio, ma se fosse stato un prodotto di un altro regista, magari meno conosciuto, sono convinto che il film avrebbe avuto qualche detrattore di meno, qui paga sicuramente il confronto con opere di un altro livello.