Cerca

logo
REVIEWSLE RECENSIONI
11/09/2019
Ride
This Is Not A Safe Place
Forse da adesso in avanti sarà possibile parlare dei Ride senza tirare per forza in ballo il passato, la nostalgia e tutti quei discorsi noiosi sul tempo che passa, su quanto eravamo giovani e su quanto siano state importanti certe band degli anni ’90 (“L’ultimo decennio del rock”, dicono alcuni saccenti, senza peraltro ammettere a se stessi di essere troppo pigri e disillusi per sforzarsi di scoprire musica nuova).

Andy Bell, Mark Gardener, Laurence Colbert e Steve Queralt sono tornati quattro anni fa e da quei pochi concerti nei festival europei è immediatamente scaturita la voglia di dare un’impostazione stabile al progetto.

Se con “Weather Diaries” potevano ancora avere un po’ di pressione addosso (“Ok, avete scritto ottima musica vent’anni fa ma quanto siete ancora in grado di farlo ora?”), direi che “This is Not a Safe Place” dissipa totalmente incertezze e timori e ci consegna una volta per tutte quella band che nel biennio 1990-92 scrisse una pagina importantissima nella storia del rock, che rimane importante anche se la maggior parte della gente ricorderà Andy Bell solo come bassista degli Oasis (parlo della gente che ricorda a memoria la formazione degli Oasis, quindi forse non così tanti).

Il disco è uscito a metà agosto, non un periodo felicissimo in realtà ma i nostri erano già in giro per una serie di date europee e abbiamo avuto la fortuna di vederli anche noi, dato che sono stati chiamati in fretta e furia al TOdays per sostituire i Beirut. Ecco, in quell’occasione credo abbiano risposto definitivamente alla domanda su chi siano oggi i Ride: sono una band che è stata ferma per tanti anni, che non pensava di poter tornare ma che, ora che l’ha fatto, non si sta limitando a vivere comodamente sugli allori del passato. Sono una band che ha scritto pezzi memorabili e che ama ancora suonarli dal vivo, peraltro con un tiro e una passione da far invidia a tanti ragazzini. Sono una band che ha riempito due dischi con canzoni nuove di zecca, che non si vergogna di inserire in scaletta accanto ai vecchi classici; canzoni che, pensatela come volete, hanno tutta la credibilità che nasce da una reale urgenza creativa, non certo da un mero impegno contrattuale.

“Weather Diaries”, pur tra alti e bassi, metteva infatti in chiaro ciò che questo nuovo lavoro ha saputo ribadire con ancora più forza: scrivere canzoni nuove, per un gruppo rimasto congelato per vent’anni, non è semplicemente un processo di clonazione del sound che lo ha reso celebre, bensì la volontà di rimanere al passo coi tempi, in un’incessante sforzo di arricchimento e rinnovamento. A partire dal coinvolgimento di Erol Alkan in veste di produttore, confermato anche per questo disco, che conosce bene la musica elettronica e che ha svolto un ruolo di primo piano nello svecchiare un sound che in tanti considerano ormai irrimediabilmente datato. E poi c’è stato un continuo lavoro di miglioramento come musicisti, con Gardener soprattutto che ha allargato il suo ruolo di chitarrista anche alla conoscenza e alla padronanza degli ultimi ritrovati in campo dell’effettistica. Li senti su disco, li vedi dal vivo e la conclusione non può che essere una: i Ride sono totalmente dentro al nuovo millennio.

“This is Not a Safe Place” è dunque un disco ambizioso, molto più coerente e solido nella sperimentazione di quanto potevano esserlo “Carnival of Light” e “Tarantula”, per chi scrive due buoni dischi (potrei essere il solo sulla terra a pensarla così ma a me soprattutto il secondo è sempre piaciuto molto) ma effettivamente frutto più della paura di essere dimenticati che di un autentico desiderio di sondare nuovi territori.

Lo fa a partire da un lavoro di produzione splendido, che valorizza sia il lavoro chitarristico che la sezione ritmica, e dona a tutte le canzoni un suono avvolgente e carico al tempo stesso, continuando con un lotto di episodi che oscillano tra il vecchio e il nuovo, mantenendo allo stesso tempo una non scontata coesione interna. Se infatti abbiamo cose come “Jump Jet”, “Fifteen Minutes”, “Eternal Recurrence”, “End Game”, che sono un aggiornamento del classico sound della band, un brano come “Future Love”, che era uscito come primo singolo, colpisce per le sue influenze più marcatamente ottantiane, in una sorta di citazione del repertorio di DIIV e Wild Nothing. Oppure “Kill Switch”, che è in assoluto uno degli episodi migliori, fatto di chitarre martellanti e di una sorta di angosciosa cupezza di fondo. Il secondo singolo “Repetition” strizza invece l’occhio ai New Order ed è uno dei momenti in cui il flirt della band con l’elettronica (peraltro molto discreto) si fa più marcato. Poi ci sono momenti più melodici, con la predominanza delle chitarre acustiche e di un certo feeling da ballata malinconica: “Clouds of Saint Marie” ma anche la più riflessiva “Shadows Behind the Sun”. E per finire, un brano come “In This Room”, che chiude il disco all’insegna di sonorità dilatate, lunga composizione con più di un richiamo agli Slowdive del primo disco, con anche una corposa parte strumentale dove Synth e chitarre se la giocano alla pari.

Non un disco perfetto (complessivamente troppo lungo e due o tre pezzi che sanno un po’ di riempitivo) ma senza dubbio più convincente e solido di “Weather Diaries”, “This is Not a Safe Place” rappresenta un documento importante per la credibilità dei Ride e per la capacità che ancora hanno di dire la loro in un mondo musicale in continuo fermento.

Se non li avete ancora visti dal vivo, rimediate a febbraio perché ne vale senz’altro la pena.


TAGS: alternative | indie | loudd | lucafranceschini | recensione | Ride | ThisIsNotASafePlace | WichitaRecordings