Nella vita di un musicista che sta spendendo anni della sua giovinezza a suonare in progetti di svariato tipo arriva spesso il momento di fare quel salto (di qualità o nel buio, decidete voi) che lo porta a giocarsi la carta solista. Naturale processo di maturazione o necessità di esprimere se stesso completamente e con sincerità totale. Questo è ciò che Kosmiz (alias Costantino Mizzoni), chitarrista del frusinate, ha fatto pubblicando il suo primo lavoro “in proprio”. Un EP di 4 tracce con un titolo, Thinking About Life Experience, già allusivo dell’impronta intimista e riflessiva che lo permea. Come accade nella tradizione del cantautorato, nostrano ed internazionale. Voce e chitarra per narrare storie più o meno personali, più o meno universalizzabili.
Kosmiz sceglie di scrivere testi in inglese, non di certo per poco amore verso la sua lingua e cultura ma, di sicuro, per amalgamarsi meglio nel brodo cosmico delle sue influenze di oltreoceano. Nel corso di una breve intervista che gli ho fatto è emerso che la scena dove si colloca è quella Sixties americana con un ventaglio di suggestioni che risiedono nel west coast rock (principalmente CSN e Neil Young) ma spaziano fino all’est coast dei Velvet Underground. Non disdegna nemmeno riferimenti alla musica africana, presente in quell’approccio alla batteria che fu tipico del compianto Ginger Baker.
Folk rock, declinato anche nella sua versione più acida, e psichedelia sono i tratti dominanti all’ascolto. Scelte stilistiche pienamente funzionali al contesto “timeless” cui fa riferimento e rispondenti anche alle esigenze espressive personali dettate da testi che raccontano di esperienze difficili, segnanti, ma anche catartiche. Metabolizzare il proprio vissuto rendendolo nella forma artistica della musica è di certo un ottimo modo per porsi fuori da sé e gestire paure, ferite e spauracchi. Il cantautorato, da Dylan in poi, fa questo. Kosmiz porta avanti questa tradizione fedelmente, riproponendo un sound genuino e privo di ritocchi di post produzione che ci catapulta nella seconda metà degli anni ’60 senza farcela sembrare un’operazione forzata di rispolvero del passato. Non un vintage luccicante e artefatto ma una scelta di campo netta da parte di chi non ha dubbi su quale sia stato il contesto spazio-temporale più fertile per la musica popolare del XX secolo. Un caso di estrema sincerità nell’arte.
I quattro brani dell’EP sembrano concatenarsi strettamente fra loro partendo dai sogni di libertà di Black Caiman Blues, passando per le grevità di The Ballad Of Cancer, per l’andamento schizofrenico di Buru fino alla ritrovata armonia di Kosmiz’s Tale. Di volta in volta le distorsioni e il mood quasi tribale delle percussioni ci guidano negli stati d’animo dell’autore. E noi seguiamo questa parabola, immedesimandoci molto. Sentendo profondamente le sue intenzioni comunicative, che sono la proiezione del forte investimento emotivo che ha fatto in questo suo lavoro. Come fosse un sistema nervoso di nervi scoperti che vengono offerti all’ascoltatore senza risparmiarsi.
In The Ballad Of Cancer questo cantare il proprio dolore e il superamento dello stesso raggiunge l’apice. Un intro in cui riecheggia Solitary Man di Johnny Cash. Poi un andamento sospeso tra una filastrocca per bambini e una marcia funebre, portato avanti da una batteria suonata solo sui tom che dà sfogo, ma anche conforto, alla voce chiaramente sofferente. Il ritmo incalzante della batteria sembra volerci, in qualche modo, consolare e dare forza. Come accadeva in The Only Living Boy In New York di Simon & Garfunkel, paragone che sembra esulare ma la matrice di certe dinamiche emozionali è la stessa. Se applichiamo l’aneddoto di Hemingway al songwriting (“Non c'è niente di speciale nella scrittura. Devi solo sederti davanti alla macchina da scrivere e metterti a sanguinare”) ci rendiamo conto di quanto Kosmiz lo abbia fatto bene.