Abbiamo atteso quasi vent’anni la rinascita dei Dream Syndicate, e quello che sembrava un incontro estemporaneo fra amici di lunga data (How Did I Find Myself Here? del 2017), si è trasformato in un vero e proprio ritorno a casa. Qui, per rimanere, ormai non ci sono dubbi. La prova provata è questo secondo disco, che a solo un anno e mezzo dal suo predecessore, suggella la ripresa di un discorso durato sette anni e quattro strepitosi album in studio, e interrottosi bruscamente nel lontano 1989.
Certo, non si può dire che Steve Wynn in tutto questo tempo sia rimasto con le mani in mano: da solo o con i The Miracle Three ha disseminato di dischi due decenni, prendendo inoltre parte a un supergruppo (The Baseball Project), i cui album, tra l’altro tutti ispirati, sono stati dedicati al popolare sport americano e alle storie che lo hanno ammantato di leggenda.
Il ritorno avvenuto nel 2017 ci restituiva un gruppo in palla che, ben lungi da sfruttare un marchio di fabbrica per meri fini commerciali, rinverdiva gli antichi fasti con un disco, lasciatemelo dire, cazzuto assai, in cui confluivano, sotto il consueto afflato jammistico, roots, tonnellate di psichedelia e una nerboruta propensione noise.
These Times si pone esattamente nella scia tracciata dal suo predecessore, anche se in questo caso l’approccio è decisamente meno aggressivo di quello con cui erano state create le canzoni di How Did I Find Myself Here?. Registrato con gli stessi musicisti (Dennis Duck, Mark Walton, Jason Victor) e con la partecipazione del grande tastierista Chris Cacavas che, visto il contributo dato, risulta un membro effettivo più che uno special guest, These Times mantiene una dirittura decisamente rock, ma come è evidente fin dall’opener The Way In, la sferragliante potenza del disco precedente è un poco attenuata da cangianti screziature pop.
Comunque sia, la forza delle canzoni rimane immutata, e il metodo non convenzione di scrittura di Wynn (suonare prima le parti strumentali e poi adattare le parole alla musica) esalta il tiro jammistico di brani costantemente attraversati da un inquieto mood psichedelico. C’è un tocco di glam nella saltellante Space Age, una robusta spina dorsale rock blues nel tiro dritto e diretto di Speedway, un evidente richiamo ai Rem nelle morbide atmosfere malinconiche di Bullet Holes, mentre Still Here Now pulsa di epicità alla Crazy Horse, guadagnandosi la prima piazza fra le migliori canzoni della scaletta.
Eppure, nonostante ogni singolo episodio abbia una propria diversa anima e suggerisca rimandi (ci sono i Rem, c’è Dylan, ci sono i Velvet), These Times è un disco che impressiona per coerenza stilistica e che suona avvincente come ogni capitolo targato Dream Syndicate. Che trentacinque anni dopo il loro esordio, non solo sono ancora tra noi e in ottima salute, ma continuano a scrivere grandi pagine di musica senza snaturarsi, rilasciando canzoni che, per quanto possano suonare famigliari, sanno essere potenti, elettrizzanti e, soprattutto, contemporanee.