Merito indubbiamente di quella che al momento rappresenta la cifra assoluta della modernità: la fusione dei generi, il mash up tra passato e futuro, spesso portato avanti senza una precisa coscienza dei confini, con la voglia e la passione a fare insieme da collante e cassa da risonanza.
Che si stessero avviando a divenire un gruppo importante lo si era già capito all’indomani di “The Underside of Power”, dopo che comunque già il disco d’esordio aveva suscitato gli entusiasmi degli addetti ai lavori.
Era stato un disco politico, il precedente, in un modo come non se ne vedevano da tantissimo tempo, il primissimo dell’era Trump, con la pretesa di racchiudere in sé l’essenza di quella che Pankaj Misra in un suo testo recente ha definito “L’età della rabbia”.
Quell’estate sono andati in giro coi Depeche Mode (che, manco a farlo apposta, portavano in tour un disco altrettanto impegnato) e hanno dimostrato di saper reggere anche la pressione degli stadi, seppure con un pubblico che non era lì per loro.
“There Is No Year” è il loro terzo disco e se è vero il luogo comune per cui è proprio il terzo, quello più difficile per una band, allora possiamo dire che abbiano vinto la sfida a mani basse. Prodotto da Ben Greenberg e da Randall Dunn, quest’ultimo noto per i suoi lavori con i Sunn O))), il nuovo album della band di Atlanta gode innanzitutto di una veste sonora magnifica, dove un’elettronica usata con grande intelligenza si unisce a chitarre potenti e ad una sezione ritmica da paura. Da questo punto di vista è un grande passo avanti, nessun album degli Algiers si era mai presentato così, l’apertura della title track è un incalzare violento e senza tregua, non è difficile immaginare cosa succederà ai concerti, se la useranno all’inizio.
E poi “Dispossession”, il singolo che conosciamo già da fine anno, con quell’incedere RnB e il suo ritornello efficacissimo, con un gran lavoro corale ad opera dei Mourning [A] BLKstar di Cleveland. Il video è stato girato tra Parigi e Algeri (dove la band si è recata lo scorso marzo, in occasione delle proteste di piazza che hanno provocato la caduta del presidente Bouteflika) e riesce ad essere “politico” col semplice uso del bianco e nero e la selezione delle location. A tema (che poi è la cifra stilistica di tutto l’album) è l’oppressione post coloniale e le sue conseguenze, il fatto che certe parti del mondo paghino ancora per lo sfruttamento di cui sono state fatte oggetto in passato. Non è un caso che un altro dei brani forti del disco, la cupa e cadenzata “Hour of the Furnaces” citi l’omonima pellicola di Octavio Getino e Fernando Solanas, caposaldo del cinema militante dei paesi del Terzo Mondo.
Poche novità dal punto di vista musicale: gli Algiers continuano a proporre la loro personale interpretazione della Black Music, ruvida ed elettrica, con attitudine selvaggia ed una forte componente elettronica che in un brano come “Unoccupied”, forse per lo zampino di Dunn, sfocia brevemente nel rumorismo. Rispetto a prima, però, c’è una maggiore volontà di lavorare sul songwriting, che da una parte ha come conseguenza una nuova maturità, con brani più strutturati e meditati, che non si affidano solamente all’effetto dirompente dell’impatto iniziale; dall’altra parte, una generale varietà degli elementi interni, con la presenza di episodi più lenti, che sfruttano le suggestioni dell’atmosfera (è il caso della blueseggiante “Losing is Ours” ma anche di “Wait for the Sound” e “Repeating Night”, più meditative ed in parte incentrate su pianoforte e tastiere). E non a caso, quello che forse è il pezzo migliore, “Chaka”, si muove come una specie di Funk industriale, sorta di The Weeknd in salsa Post Punk, con uno splendido sax ad impreziosirne la parte centrale. Ed anche laddove gli ingredienti sono quelli di sempre, come nella già citata title track o nella conclusiva “Void”, il quartetto si dimostra più bilanciato e consapevole, più attento di prima a scrivere dei brani che funzionino nella loro interezza e non solo per il tiro che possiedono.
Siamo di fronte ad un altro grandissimo album, l’ennesimo centro per Franklin James Fisher, Ryan Mahan, Lee Tesche e Matt Tong. Più che retromaniaci, gli Algiers sono contemporanei, nel senso che fondono generi e mondi sonori totalmente diversi tra loro, rivitalizzandoli e reinterpretandoli in qualcosa che riesce a suonare sorprendentemente nuovo e fresco. Li aspettiamo a fine febbraio e Roma e Milano.