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REVIEWSLE RECENSIONI
18/11/2018
Maisha
There Is A Place
Il jazz che ritorna all’Africa con le ritmiche delle percussioni e del basso pulsante, che si nutre del soul dei padri e del gospel dei nonni, dei brani che non finiscono e vorresti che non finissero mai. Il jazz che ritorna oggetto popolare, che non ha più barriere.

Fermi là. Non voglio sentir parlare di camicioni a fiori, pantaloni a zampa d’elefante, collane con le perline e di incenso bruciato. Non voglio sentir parlare di illuminazioni mistiche e di altro ciarpame pseudo-religioso, penso che la musica basti da sé per elevarsi. Se poi vogliamo proprio adorare un Dio, rivolgiamoci a John Coltrane.

Quale musica mi chiederete? Tutta? No, un momento.

Dal giorno che è apparso “The Epic” di Kamasi Washington aspettavo con curiosità l’avvento di una nuova ondata di spiritual jazz e dopo un tot di anni le mie previsioni si sono rilevate giuste. Lungi dall’essere morto, il “jazz spirituale”, genere che ebbe in Pharoah Sanders e Alice Coltrane le punte di diamante e il riappropriarsi di quel mondo da parte di Kamasi, ecco che puntualmente ritorna tra di noi, questa volta grazie ad un ensemble londinese, i Maisha.

In questi anni di loppa musicale e di pischelli che hanno scambiato la Bovisa per il Bronx, è giusto che ci sia un posto per i Maisha e infatti “There Is A Place”, come recita il titolo del loro album di debutto, uscito dopo l’EP di esordio del 2016.

Il jazz che ritorna all’Africa con le ritmiche delle percussioni e del basso pulsante, che si nutre del soul dei padri e del gospel dei nonni, dei brani che non finiscono e vorresti che non finissero mai. Il jazz che ritorna oggetto popolare, che non ha più barriere.

E c’è ancora voglia di fare ed ascoltare dischi registrati come fossero dal vivo (questo lo hanno realizzato in tre-giorni-tre del 2018) di brani che iniziano con morbida tranquillità e che poi vanno ad esplodere in un magma incandescente di note.

Il maître à penser dei Maisha lo trovate alla batteria e si chiama Jack Long, i suoi compagni di strada sono il sassofonista nonché flautista Nubya Garcia, la chitarrista Shirley Tetteh, il tastierista Amané Sugamani, il bassista Twm Dylan e gli assatanati percussionisti Tim Doyle e Yahael Camara-Onono, accompagnati per la bisogna da un piccolo ensemble di archi e dal trombettista Axel Kaner-Lindström, e basta appunto la loro musica per giungere al nirvana.

Cinque brani per soli quarantacinque minuti di musica, ma molti di più ne avrei voluti: i Maisha attingono dall’Afrobeat, come ascoltiamo in “Eaglehurst Palace”, dai miti egizi, “Osiris”, all’Oriente arcano e seducente di “Azure”, al blues afro e al groove di “Kaa”, come un refolo cosmico che ti piomba sul giradischi e riempie ogni anfratto del tuo corpo, fino a mandarti in trance.

L’ensemble londinese è aria fresca, è la tradizione che si evolve e suona moderna, è tutto quello che noi ascoltatori in crisi di astinenza da Kamasi Washington aspettavamo da qualche mese.

Nessuna tunica floreale e nessuna sostanza psicotropa per i Maisha; la loro musica ha tutto quel che serve per espandere le coscienze.