Odio citarmi ma credo che la genesi di questo “The Universe Inside” vada cercata nelle parole che Steve Wynn mi disse esattamente un anno fa, durante l’intervista che gli feci in occasione dell’uscita di “These Times” (potete leggerla QUI). Stavamo passando in rassegna i vari pezzi del disco e, arrivati a “The Whole World’s Watching”, gli dissi che quella, molto più delle altre, avrebbe a mio parere reso molto bene dal vivo. Lui mi rispose così (l’intervista completa era uscita su Loudd quindi se volete potete leggerla): “Ti rivelo questa cosa: durante le session di questo disco facevamo lunghe jam ogni giorno, durante le quali cercavamo nuove forme, nuove soluzioni. Di queste Jam, l’unica da cui poi abbiamo tratto una canzone è stata proprio “The Whole World’s Watching” che in effetti, se ci fai caso, è un pezzo in forma libera, funziona proprio come una session di improvvisazione, è venuta fuori dal nulla. E pensa che la sessione originaria da cui quel pezzo è uscito dura 80 minuti: l’abbiamo suonata una notte, dalle 23.30 alla una del mattino!”.
A quel punto gli chiesi se l’avessero registrata e la risposta fu affermativa: “Certo che sì! E ti dico che è davvero fantastica! La stavo ascoltando in aereo, un paio di giorni fa, è veramente buona! Certo, non è una cosa per tutti, siamo noi che facciamo quello che facciamo, liberamente, nella nostra forma migliore. Però sarebbe bello pubblicarla, prima o poi, magari come bonus disc di un’edizione limitata o qualcosa del genere…”
Ecco, alla fine quella session da 80 minuti è qui. Non tutta, perché, contando la porzione che è stata utilizzata lo scorso anno e considerando che il lavoro che abbiamo tra le mani dura “solo” un’ora, credo che ad occhio e croce qualcosina sia rimasto inedito. Ma non è detto che sarebbe decisivo. Per quanto mi riguarda, la curiosità mia e di tutti quelli che all’epoca lessero queste parole (e tutti quelli a cui Steve disse la stessa cosa, non penso certo di avere avuto l’esclusiva!) può ritenersi soddisfatta.
Lo ha chiarito lo stesso Wynn nel comunicato stampa che accompagna l’album, che tutti gli episodi che lo compongono sono stati ricavati da un’unica session. Difficile, in effetti, che si tratti di un’altra, anche se tutto può essere, ovviamente.
Ad ogni modo, questo non è un vero e proprio album dei Dream Syndicate. O meglio, lo è nella misura in cui si tratta di materiale totalmente inedito, non lo è se pensiamo che questi contenuti appartengono allo stesso periodo di “These Times” e che, almeno nel momento in cui furono concepiti, non erano pensati per essere declinati in una canonica uscita discografica.
Voi direte: “Che differenza fa?”. Nessuna, ovviamente ma mi pareva corretto (e pedante) precisarlo.
Resta che l’itinerario artistico di questa band è sorprendente: si riformano nel 2012, dopo uno iato particolarmente lungo, pubblicano un nuovo disco a 29 anni di distanza dall’ultimo, ne fanno uscire un altro esattamente due anni dopo e adesso, a seguire, ne arriva pure un terzo. E volete sapere una cosa? Mai, neppure per un istante, si è avuta l’impressione che fossero invecchiati o, peggio, intenti solo a rievocare i vecchi tempi. “How Did I Find Myself Here” e “These Times” erano due dischi freschi, potenti e spaventosamente ispirati, che citavano il vecchio sound della band ma riaggiornato e attualizzato con, allo stesso tempo, l’inserimento di parecchi elementi inediti (in questo senso, l’ultimo è stato quasi un lavoro sperimentale).
“The Universe Inside” mette invece in primo piano il loro gusto per le jam, per l’improvvisazione, per le sonorità lisergiche e le infinite ripetizioni di giri e riff; è un lato che i fan conoscono bene perché dal vivo i nostri sono soprattutto questa roba qui. È bello sentirli suonare le loro canzoni ma alla fin fine aspetti sempre che Wynn e Jason Victor si guardino e inizino a far urlare le loro chitarre, col sempre compiacente Chris Cacavas a star loro sopra con le sue tastiere. “John Coltrane’s Stereo Blues”, ad esempio, è uno di quei momenti solenni in cui cominci a fissarli e vorresti che non smettessero mai.
Ecco, per la prima volta tutto questo viene messo a disposizione di chiunque, non su un live album (che sarebbe anche il caso di far uscire, prima o poi, perché gli ultimi due tour sono stati davvero sorprendenti) ma su un disco in studio con tutti i crismi.
La conseguenza è un lavoro dove il flusso di coscienza è stato spezzato in cinque tracce distinte che non presentano tuttavia marcate differenze tra loro. È un disco nato da una seduta di improvvisazione, le parti sovraincise ovviamente ci sono (le linee vocali innanzitutto, anche se “Dusting Off The Rust” è strumentale e “The Regulator” ha solo delle spoken word inseriti qua e là) ma la forma canzone non è rispettata, quel che importa davvero è sentire vibrare l’intesa tra Jason Victor, Dennis Duck, Chris Cacavas, Mark Walton e Steve Wynn (ci sono anche, come ospiti speciali, Stephen Mc Carthy al sitar elettrico, alla Pedal Steel e al basso a sei corde e Johnny Hott alle percussioni) , ascoltare il modo sublime in cui le chitarre si fondono tra loro e, con l’apporto imprescindibile dei fiati di Marcus Tenney, ricamano paesaggi sonori la cui ricchezza sta sia nel quadro d’insieme sia nei dettagli più minuscoli.
Ad arricchire il tutto, ci pensa poi il magnifico video di “The Regulator”, monstre da 20 minuti che inaugura il disco e che, con la regia di David Daglish, è stata trasformata in un magnifico viaggio nei principali luoghi di New York. Una sequenza di immagini mozzafiato, che si fondono man mano con la psichedelia del brano, rendendo di fatto impossibile distinguere i vari piani della realtà.
E contribuisce anche l’artwork di Alex Aliume, che realizza una “visione” in pieno stile Alex Grey (vedere, tra le altre cose, la rassomiglianza con le illustrazioni che il celebre artista realizzò per “10.000 Days” dei Tool), che si sposa alla grande coi contenuti musicali.
Un disco coraggioso, non a caso la prima idea era quella di pubblicarlo come bonus da qualche parte. Che abbiano optato per una release con tutti i crismi è solo l’ennesima prova dell’attitudine di un gruppo che, da quando è tornato in pista non ha mai voluto dare le cose per scontate e ha sempre cercato di spingersi al di là di ogni prevedibile comfort zone. Potremmo dire che “The Universe Inside” sia un prodotto per fan, che sia troppo ostico per un pubblico per così dire ordinario ma la verità è che se amate i Dream Syndicate non potrete prescindere da quello che è uno dei loro volti più autentici.
In attesa di tempi migliori, quando potremo rivederli finalmente sul palco. Con un disco del genere potrebbero anche far stare in piedi un intero tour.