Nato e sviluppatosi nelle regioni del Sud degli USA, il blues ha rappresentato la componente più significativa della condizione di schiavitù dei neri sradicati dall’Africa; come canto profano è andato poi estendendosi lungo le più ampie direzioni, sempre conservando inalterato il suo drammatico registro espressivo, raggiungendo l’altra sponda dell’Atlantico, trovando artisti illuminati e sensibili che si sono immedesimati nell’urlo, nel grido, nello slancio di una ribellione liberatoria e hanno amato con ardore le musiche, i brani e i concetti sottesi, prendendo coscienza di tale universo di percezione.
Si sono spesi giustamente fiumi di parole sull’importanza e la grandezza di un personaggio come John Mayall per lo sviluppo del British blues, tuttavia spesso ci si è dimenticati di un particolare indissolubile nella sua persona. Cantante, armonicista e tastierista appassionato, chitarrista dal tocco semplice, ma garbato e mai banale, oltre ad avere un talento incommensurabile nell’individuare le nuove leve del genere e risultare un profondo conoscitore del mondo a dodici battute, Mayall sale in cattedra per il gusto della ricerca di nuove modalità per suonare e registrare la cosiddetta "musica del diavolo". Come Penelope il caro John ha sempre tessuto e disfatto le trame della tela dei Bluesbreakers, sia quanto a mutamenti di formazione sia quanto a cambi di ispirazione, ma anche senza il suo gruppo storico, ha sovente inciso utilizzando un collettivo diverso, scegliendo sempre i musicisti a seconda del progetto ideato.
La sua filosofia rispecchia per certi versi quella di alcuni illuminati allenatori di calcio, secondo i quali gli schemi e le impostazioni di gioco sono legate al tipo di calciatori presenti e non viceversa. E l’artista nato a Macclesfield, stimolato dalle repentine variazioni di organico, come capita, pensando ancora al pallone, a ogni calciomercato, ha sempre cercato di scegliere canzoni lungo le quali i componenti della band potessero davvero brillare.
“Sono sensazionali! La nuova Mayall blues band, all’insegna del less is more, ha d’improvviso sviluppato uno dei sound più freschi ed eccitanti della Gran Bretagna, probabilmente dell’Universo. Sorprendentemente senza un batterista e senza una pila di amplificatori, questi ragazzi, grazie al cambio di formula di John, stanno creando dal vivo una musica delicata e appagante, come non mi era capitato di sentire da tanto, tanto tempo”.
Il booklet dell’LP contiene tali fragorose ed entusiastiche affermazioni, tratte da un articolo del 21 giugno 1969, del noto giornalista Chris Welch, uno dei massimi esperti della scena inglese e firma di spicco della rivista Melody Maker. Sono parole lungimiranti e certamente condivisibili anche più di cinquant’anni dopo riascoltando The Turning Point, registrato dal vivo al Fillmore East Theater di New York il 12 luglio, dopo solo quattro settimane di “convivenza musicale” tra i membri di questa nuova formazione. Un quartetto sensazionale, già sorprendente a partire dal Boss, che abbandona organo e piano e si concentra sull’armonica, la slide, l’amata Telecaster a sei corde e sulle percussioni minimali, siano esse praticate tramite tamburino o direttamente solo con la bocca e la voce, il cosiddetto beatboxing. L’elegante chitarra acustica di Jon Mark, un raffinato session man ai servigi pure di Marianne Faithfull, e il tonificante basso di Steve Thompson fanno da propellente per i fiati del formidabile Johnny Almond (già presente nel mitico Beano Album dei Bluesbreakers con Clapton) e qui perfettamente a suo agio tra flauto, alto e tenor sax.
Una delle caratteristiche salienti dell’opera è inoltre l’importante scelta di incidere solo pezzi autografi, con la penna di Mayall sempre più affilata nella stesura delle canzoni anche a livello lirico; sbalordisce poi la coesione e l’empatia non scontata fra gli artisti, e l’opener "The Laws Must Change", accorata presa di posizione contro i comportamenti della polizia verso la gioventù e l’uso di droghe, incendia subito il pubblico presente nella mitica location newyorkese con un riff magnetico, inizialmente pilotato da basso, sassofono e dall’estro dell’armonica. Durante la canzone si ode pure il piacevole fingerpicking di Mark e si rimane colpiti dalla duttilità di Almond, abile a passare con nonchalance al flute nella seconda parte della performance. La seguente "Saw Mill Gulch Road" è una delle vette dell’album ed è quella che risente maggiormente delle influenze del lungo soggiorno californiano di Mayall avvenuto in quell’epoca: un tocco psichedelico e sfumature country folk si impossessano della melodia, trainata da una slide ammaliante e agganciata a un flauto sensuale. Questo è il brano più ricollegabile al lavoro precedente "Blues from Laurel Canyon", il primo dopo il breakup dei Bluesbreakers, in cui figura già Steve Thompson.
La frenetica passione per il blues e i suoi vecchi maestri emerge in "I'm Gonna Fight for You J.B", dedicata al mitico J.B. Lenoir e costruita sulle trame chitarristiche Mayall/Mark. Più avanti nella canzone compaiono basso e sassofono a dare compattezza sonora per un altro picco del disco, in una scaletta che non delude e non scende di tono mai, come si evince proseguendo l’ascolto e tuffandosi nella fluida "So Hard to Share", perfetta miscela di tradizione e innovazione, che parte tranquilla con il sole all’orizzonte per trasformarsi in un mare in tempesta, tra lampi e tuoni provocati da assoli entusiasmanti.
"California" e "Thoughts About Roxanne" sono l’occasione per unire le forze compositive di Mayall e Thompson; la prima è una magnifica improvvisazione con tutti i musicisti al top dell’ispirazione e in cui John si divide tra tamburello e armonica. Sapientemente costruita intorno ad alcune liriche imperniate sulla nostalgia di casa, tema esistenziale molto sentito per chi vive sempre on the road, diventerà un classico spesso suonato ai concerti, mentre "Thoughts About Roxanne" si avvicina con gusto alla jazz fusion ed è il ricordo di una ragazza speciale, una storia di amore e amicizia vissuta in quel di Los Angeles.
“Ho sempre pensato che allora fosse il momento giusto per individuare una nuova direzione nel genere e The Turning Point è il risultato di questo esperimento, di cui vado molto fiero”.
Basta ascoltare l’effervescente "Room to Move", inno all’amore libertino, senza dover avere un legame fisso, declinato dal punto di vista di un musicista alla ricerca di compagnia durante gli estenuanti tour, per intuire che gli intenti del “Padrino del British blues” vanno oltre le aspettative. Il brano in chiusura gode di uno dei momenti più eccitanti di tutto il concerto, ove tutta l’empatia e l’interazione tra gli artisti si evidenziano anche nei “silenzi”, nelle pause di ciascheduno: a metà performance giunge un entusiasmante break, con un lungo assolo di beatbox di Mayall, spalleggiato da Almond, ed è fenomenale ascoltare la maestria di Mark e Thompson nel riprendere il ritmo rispettivamente con chitarra e basso dopo quella “lezione” di mouth percussion. Un pezzo incredibile, colmo di sorprese con un riff uncinante, e se ascoltate l’intro de "Il gatto mangia il topo" di Edoardo Bennato vi renderete conto di quanto John Mayall abbia influenzato pure i nostri grandi collegati al genere.
The Turning Point rappresenta solo un tassello della formidabile e sterminata carriera del leggendario bluesman inglese, sempre di altissimo livello e coerente con un personaggio mai sceso a compromessi commerciali. Si abbina molto bene a un altro live, di diverso tenore e intento, ma altrettanto speciale come Jazz Blues Fusion, pubblicato nel 1972. Sicuramente il palcoscenico è il luogo ove John Mayall si esprime meglio, e a dimostrarlo vi sono sterminate registrazioni epiche, come quella del 2003 per il settantesimo compleanno con i suoi Bluesbreakers e ospiti speciali come Clapton, Chris Barber e Mick Taylor, tuttavia anche due album in studio del calibro di Road Dogs (2005) e A Special Life (2014) certificano sangue, sudore e passione fino ai giorni nostri per un protagonista assoluto, da cui sono passati tutti i più grandi virtuosi del proprio strumento, basti qui aggiungere i nomi di Peter Green Walter Trout, Buddy Whittington, John McVie, Greg Rzab, Dick Heckstall-Smith, Hughie Flint e Joe Yuele, solo per citarne alcuni.
Un musicista carismatico, tabernacolo di bellezza, antesignano esploratore di territori sonori mai calpestati con un originale approccio ritmico e uno stile decisamente inconfondibile. Un uomo che ha fatto del blues la sua vita, cogliendone l’estrema essenza, grazie alla capacità di trovare aspetti tristi nell’allegria, e allegri nella tristezza.