Andiamo in ordine: stiamo parlando almeno concettualmente di un duo, rappresentato dalla compositrice Hillman Mondegreen, mente inglese e penna del progetto, e dal vocalist Wolfgang Valbrun, mezzo francese e americano. Questo è il progetto Ephemerals.
I due hanno dato vita negli ultimi anni ad una fruttuosa collaborazione che ha toccato territori decisamente più soul fino ad allontanarsi da un genere più riconoscibile ed avventurarsi in una indovinata mescita di gusti, come qua in questo The Third Eye.
La prima cosa che mi ha colpito in ordine è stato il suono di questo disco. Una nuvola di fumo chiaro e limpido, dove puoi serenamente chiudere gli occhi e lasciarti accompagnare, reverberi e ripetizioni calibrate fino al punto sempre solo e soltanto migliore, compresso in maniera decisa ma allo stesso tempo addolcita e perfettamente godibile, basse frequenze di conseguenza presenti e con la continua impressione che stia per scaturirne un’esplosione.
La seconda cosa che ho notato è che lo stavo ascoltando dallo smartphone. Non ho mai sentito un disco suonare così su un dispositivo mobile. Poi l’ho collegato all’apparecchio bluetooth ed il discorso ovviamente si è fatto ancor più interessante.
Il Fender Rhodes che dà il battesimo sonoro all’album è sempre un buon segno, e non posso non pensare a Kid A.
Un tempo tendente allo slow apre i battenti e presenta il sound decisamente sperimentale e vecchio, di un gusto sopraffino.
Si presenta la voce recitando, con una sovrapposizione di altre registrazioni vocali che la rendono computerizzata. Forte come inizio, ma ha un significato profondo questa Poly, che forse mi sfugge al primo ascolto, ma mi lascio prendere.
L’entrata dei tre fiati apre le porte alle soluzioni sonore e quella degli archi alla fine spacca la canzone e comincia a mostrare gli artigli degli arrangiamenti di cui beneficeremo. Sopraffini.
Così come lo è il rapido passaggio alla successiva Blur.
Alla meccanicità del ritmo batteristico, al basso incredibilmente nascosto ma presente che mi dà fuori di testa da quanto mi piace, si pone vicino il timbro vocale dolcemente melodico e molto ben scritto, piacevole.
La dose di arrangiamenti che ogni tanto fanno capolino, oltre che piantarmi in mente Esquivél con le sue composizioni di metà anni cinquanta che suonerebbero attuali oggi, rende l’ascolto movimentato oltre che gustoso.
Ad esempio il loop che sta sotto alla canzone che “sembra” gestito da dei fiati probabilmente sarà fatto di altro ma non mi interessa tanto è bravo nel prendersi il proprio spazio.
Nel Rhodes che introduce la successiva Coral c’è tutto il fruscio dell’amplificatore da cui il piano esce prima che entrino una pungente e tonda sezione ritmica che sembra rubata a un sogno sonoro nel cassetto del sottoscritto e una mini sezione di due fiati (altro gusto strettamente personale, e vabbè). E poi c’è la voce, meravigliosamente reverberata ed effettata nel suo dubbing, cosa che diventerà una caratteristica ricorrente nell’album.
Belle melodie, begli accordi, incastri scritti con un gusto che stende ed una semplicità che dopo che l’hai sentita pareva proprio lì, dietro l’angolo.
La coda finale con archi ed ispirazioni orchestrali e radiofoniche che prendono il sopravvento sembra un prato, magari con dei volontari problemi rumoristici di ricezione e tentativi di sabotaggio analogico ma pur sempre in un prato sei.
Il sound, la scrittura, gli arrangiamenti e la timbrica vocale dell’unico essere umano che pare godersi pur restandone vittima in quest’annegamento sonoro sono una pozione magica.
Credo che emerga senza distinzione di colpi nelle successive Electricity, Float e Avatar, tanto è alto il livello dell’album.
In Electricity si drizzano le orecchie per un momento bassistico dominato dal fuzz, per la tanto bella e percepita assenza di chitarra, o comunque l’effettiva non mancanza, tanto è ben gestito l’arrangiamento sonoro, un po’ come faceva Jaco Pastorius in Word of mouth, dove con l’aiuto di Hancock e di archi e legni rendeva gli equilibri perfettamente ordinati e l’ascoltatore, in qualche maniera, più sensibile e disponibile alla mancanza di uno strumento a corde armonico.
Sì, Float pare più debole, ma è una sensazione che quasi cerchi e che forse trovi se soggettivamente non vieni preso dalla melodia, da qualcosa di personale. Diciamo che la scrittura di questo pezzo non mi coinvolge quanto le altre ma è tutto perfettamente lì. E di solito le canzoni che non ti colgono ai primi ascolti stanno solo prendendosi il tempo per trovarti tra qualche giorno.
La chiusura cruda di archi nudi è ad esempio bellissima e la degna introduzione alla successiva Avatar che con quel mondo fluttuante di archi, flauti e wind chimes pare portarti all’interno di un musical o nell’intro de Il cielo in una stanza di Mike Patton con Mondo Cane.
È forse la canzone più sognatrice dell’intero album, con la voce adeguatamente ripulita dai filtri di sporcizia e distanziatori con cui abbiamo familiarizzato finora, in questo album dove si parla di contrari e di ricerca di sé stessi.
Sì, è proprio così, sembra la ballad che in uno spettacolo teatrale tutti aspettano per godersi quel senso di sentimenti che si incrociano e finalmente trovano. Appunto come in un sogno. Ed è bella che non sembra vero.
In Origin, successiva e settima traccia del disco, le atmosfere tornano ad essere più ricercate e nascoste, interessanti a mio avviso, come è successo in tutta la prima parte del disco.
Il ritornello mi pare essere decisamente il punto più alto delle melodie arrivate finora, un incontro di risoluzione ovvia e meritata, di quelle cose che mettono d’accordo tutti, forse per un leggero richiamo a qualcosa che mi sfugge e che rende Origin familiare e “simpatica”.
La maestria degli archi di Rising ci abbraccia ed appoggia nel territorio di voci scure agguantate da un drumming che strizza l’occhio ad una mano tipicamente jazzy, e mi passerete il termine all’ascolto, nella leggerezza con cui si gestisce il ride, nel sound e quasi a farlo apposta parte un momento solistico di sax che mette nero su bianco la mia ispirazione.
Gli intrecci si fanno stuzzicanti perché c’è un richiamo a degli aspetti generistici, ma il polso delle ambientazioni che si susseguono lo hanno sempre loro, con la pozione magica che si diceva un po’ sopra: sound, scrittura, arrangiamento, timbro.
Un gioco di voci col vocoder introduce Thiefin che riesce in qualche strana maniera ad unire il mondo degli Air di Kelly watch the stars alla Janis Joplin di Mercedes Benz.
La canzone si apre ufficialmente con l’entrata degli strumenti stavolta più massicci, decisi, liberi e in parte violenti, adottando un intercedere che ricorda per certi versi National Anthem dei Radiohead con la vivacità che avevano solo i Beastie Boys e questo senso di libertà, in una canzone che per il testo funge da specchio di se stesso, ci prende per mano e porta in un delizioso esperimento sonoro di contrapposizione tra un solo frenetico di batteria sulla sinistra del nostro panning e degli archi languidi e funerei sulla destra. Nel mezzo gioca un sassofono. Un momento che pur essendo estremo per il mondo discografico attuale non stona affatto col resto di musica avanguardistica che finora ci ha affascinato. Un po’ come nel bel mezzo delle Smile sessions dei Beach Boys, quando spunta Workshop, un minuto di transizione rumoristico con trapani, percussioni, vibrafoni e contrabbasso. Eppure diventa un necessario appoggio e porto sicuro per i nostri polmoni in mezzo a Heroes and Villains, Good Vibrations e Surf’s up. Al momento giusto. Questa era Homebody.
Instagram chiude l’album tenendo altissimo il livello di ispirazione e non tradendo minimamente le aspettative. Il suo strascicato tempo in sei ci accompagna verso l’uscita ed un piccolo dispiacere pervade mentre la batteria esce di scena sulla coda e ci lascia da soli con un pianoforte largo, voce e gli ennesimi fiati belli e sempre più in lontananza che li vedi mentre se ne vanno.
Perché ho la sensazione che questo bell’insieme sonoro mi mancherà, lo penso un attimo e sorrido per l’ovvietà di poter ricominciare l’ascolto.
Ma la sensazione di mancanza, che per l’appunto occupa la maggior parte dell’album, come causa di quella ricerca continua di se stessi di cui si parla, mi si presenta nuda di fronte agli occhi in tutta la sua bellezza e non posso che giudicarla come la migliore da molto tempo a questa parte.