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REVIEWSLE RECENSIONI
15/12/2020
Blue Oyster Cult
The Symbol Remains
Il primo album in studio dei Blue Öyster Cult dopo quasi vent'anni, ci restituisce una band in formissima, capace ancora di forgiare metallo nel cuore delle tenebre e di conquistare con melodie irresistibilmente catchy

Il 2020 è stato l’anno che ha certificato un potente ritorno sulle scene per i Blue Öyster Cult, rimasti per lungo tempo ai margini del mercato musicale. In pochi mesi, infatti, abbiamo assistito alla ristampa di alcuni album della loro discografia più recente, alla pubblicazione di una serie di dischi dal vivo celebrativi (ben tre, quest’anno) e finalmente, all’uscita del primo disco di brani originali, dopo quasi un ventennio di assoluto silenzio.

Alla luce della caratura di un disco come questo The Symbol Remains, ci si chiede quale sia stato il motivo che ha spinto la band di Long Island a fare attendere così tanto i propri fan, per regalare loro, finalmente, un nuovo full length; per converso, però, si può affermare che tutta questa attesa non è stata vana, dal momento che ci troviamo di fronte, almeno a parere di scrive, al miglior disco dei BOC dai tempi di Fire Of Unknown Origin (1981).

Un nuovo album che raggruma in sé cinquant’anni di storia di una delle band più influenti e originali del panorama hard rock statunitense, che ha fatto la storia con album seminali come Tyranny And Mutation (1973) e Secret Treaties (1974), che ha sbancato le classifiche con Agents Of Fortune (1976) e la hit Don’t Fear The Reaper, e che, tra alti e bassi, si è affacciata al nuovo millennio, con lavori a metà tra il rock potente e tenebroso degli esordi e ammiccamenti radiofonici in salsa Aor.

The Symbol Remains risulta, così, un disco compatto nel suono e granitico nel suo esibire dosi massicce di decibel ed energia, ma al contempo estremamente vario nell’andamento. La band capitanata da Eric Bloom (voce e chitarra) e Donald “Buck Dharma” Roeser (chitarra), unici membri originari rimasti, ha sempre avuto dalla sua, nei momenti di massima ispirazione, la capacità di scartare l’ovvio, puntando sull’inventiva degli arrangiamenti, e giocando spesso sul contrasto tra furore elettrico e melodie che frullano in testa alla velocità della luce.

Il disco inizia, così, con il riff sparato ad alzo zero di That Was Me, una botta di cattiveria che, se non si regola il volume della casse, rischia di scrostare l’intonaco dai muri. Una prova di forza belluina, che mette subito in chiaro quanto questa musica si muova a proprio agio nei territori confinanti il metal, cosa che succede anche nell’incedere grave e nel riff sabbathiano della minacciosa Stand And Fight.

Non sono, però, tutti assalti all’arma bianca: nella splendida The Alchemist, a firma di Richie Castellano, chitarrista della band da una quindicina d’anni e autore di molti dei brani in scaletta, la potenza di tiro si mette al servizio di una visione più marcatamente prog, Train True (Lennie’s Song) gioca con un rock’n’roll dal sapore antico, Box In My Head e Edge Of The World mostrano un’irresistibile profilo Aor, mentre Tainted Love veste di elettricità una ballata da cantare tutti insieme sotto il palco, migliaia di accendini accesi nel cuore della notte.

E’ davvero sorprendente ritrovare una band così in palla dopo tanti anni, una band capace di rimanere fedele a sé stessa, che riesce, però, a innervare la propria musica di tanta esuberante freschezza, evitando di imboccare la strada di un frusto passatismo. Tanto che, l’unico difetto che si può imputare a The Symbol Remains è proprio il suo essere un disco riuscitissimo, circostanza che ci fa incazzare, pensando ai vent’anni passati invano prima della sua uscita, e tremare all’idea di doverne attendere altrettanti prima di poter ascoltare un altro gioiello dei BOC.


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