Gli ultimi, sono stati anni molto intensi per Rick Springfield, un’artista che si è sempre diviso fra due grandi passioni, la musica e il cinema. Lo abbiamo, infatti, trovato in sala di registrazione per un disco divertente e pimpante come Rocket Science (2016) e davanti alla cinepresa per le serie TV True Detective e Supernatural e, soprattutto, per quel gioiellino di ironia intitolato Dove Eravamo Rimasti (2015) a firma Jonathan Demme e con protagonista un’irresistibile Meryl Streep.
Nel frattempo, il rocker di Sydney ha trovato anche il tempo di portare in giro per gli Stati Uniti Stripped Down, spettacolo itinerante nel quale ha incluso per la prima volta un paio di brani blues scritti per l’occasione. La cosa lo ha divertito talmente tanto, che Rick ha pensato di darle un seguito, registrando questo The Snake King, disco interamente dedicato alla musica blues, passione nata da ragazzo e mai sopita, nonostante il trascorrere degli anni.
Un nuovo disco, dunque, che è in realtà un ritorno al passato, a quel periodo in cui un ancora imberbe Springfield militava in piccole band australiane desiderose di replicare la musica di eroi come Eric Clapton, Jimmy Page e Keith Richards. In seguito Rick troverà la sua strada e forgerà in uno stile unico il suo pop-rock ad alto tasso radiofonico. L’amore per le dodici battute, però, non si è mai spento davvero e oggi torna protagonista in un disco divertente e ispirato.
Non un album per puristi del genere, meglio intendersi subito, ma una scaletta di dodici canzoni in cui il blues viene proposto con il consueto taglio mainstream e arricchito da uncinanti melodie. Ciò che poteva diventare un pasticcio per chiunque, nelle mani sapienti di Springfield viene, invece, gestito con misura e intelligenza. Due brani sigillano l’album: l’iniziale Land Of The Blind, rock radiofonico a cui bastano poche note di chitarra e deliziosi coretti retrò per decollare, e la conclusiva, lunghissima, Orpheus In The Underworld, ballatone senza fronzoli di springsteeniana memoria.
Due canzoni diverse dal mood del disco che, come si diceva poc’anzi, rimastica la materia del blues con divertita freschezza. La travolgente The Devill That You Know evoca il sound chicagoano (cosa che succede anche in Judas Tree) con l’armonica in bella evidenza a trascinare le danze, mentre Little Demon (Part 1 & 2) sfodera una grinta quasi hard, che si dissolve poi in una splendida coda strumentale, in cui a essere citato è Gary Moore. Nella title track Springfield si cimenta con una scintillante resofonica e pesca dal cilindro un ritornello da k.o., mentre nella tiratissima Suicide Manifesto Rick spinge l’acceleratore a tavoletta senza però mai perdere la rotta melodica che è la vera specialità della casa. C’è anche spazio per Santa Is An Anagram, un rock’n’roll basico e impetuoso, che rimanda a Chuck Berry e che testimonia quanto sia bravo Springfield a giocare con le citazioni senza snaturare la propria identità artistica.
In un panorama musicale in cui è soprattutto l’hype a generare gli ascolti, The Snake King è un disco, ahimè, destinato alle retrovie; eppure, datemi retta, una volta provato, farete fatica a toglierlo dal lettore. Per quanto mi riguarda, era da tempo che un disco non mi divertiva così tanto. Quindi, chiudo qui la recensione, e vado a riascoltarlo. Enjoy!