Sconfitto il brutto male che ne aveva seriamente minato la salute, e perso per strada il sodale David Ellefson, per i noti guai giudiziari, Dave Mustaine riporta sulle scene i suoi Megadeth, a sei anni dal precedente, più che discreto, Dystopia. Che ritornano, come forse nemmeno i fan più ottimisti si sarebbero aspettati, in ottima forma.
Mustaine non è ancora una vuota icona di un glorioso passato, ma un musicista che ha tanto da dire, e lo dice ancora con quel talento che ha sempre distinto i Megadeth come band capace di scartare i rigidi paletti del thrash metal. Dire che Dave Mustaine ha fatto la storia del rock suona come un inutile eufemismo, ma tant’è. L'uomo è uno dei musicisti heavy metal più influenti degli ultimi quarant'anni, una sorta di istituzione, autore di alcuni dei capitoli che definiscono il genere. Insopportabile enfant terrible per alcuni, carismatico idolo per altri, Mustaine non ha mai lasciato nessuno indifferente durante il suo travagliato, e ormai pluridecennale, percorso. Classici come Peace Sells... But Who's Buying, So far, So Good, So What e Rust in Peace, sono scolpiti nella pietra per i posteri, merito di un artista che è sempre stato capace di trovarsi nel posto giusto al momento giusto.
Sebbene la musica dei Megadeth abbia cessato di essere artisticamente rilevante da metà anni ’90 (seppure non siano mai mancati buoni dischi), sembra esserci un elemento nostalgico che continua a spingere la band verso il futuro, come un flusso costante e continuo, troppo forte per essere contenuto. Il nuovo millennio, poi, annovera dischi che, seppur non abbiamo in alcun modo modificato una formula ormai immutabile, hanno, tuttavia, fotografato un Mustaine volitivo e ispirato, ben lontano dai giorni della pensione e dell’oblio (cito The System Has Failed per tutti).
E’ del tutto evidente, però, che sarebbe folle aspettarsi dai Megadeth un nuovo Rust In Peace, ma questo The Sick, The Dying…The Dead, pur non avendo la magia del passato, è un disco di livello, con una solida direzione artistica, ottime canzoni e i soliti, eccitanti, riff tritaossa. Dave Mustaine, oggi sessantenne e reduce, come dicevamo, da una battaglia contro il cancro alla gola, non è più il ribelle di una volta, né come uomo né come musicista. Non è arrivato, però, non ha tirato i remi in barca, non si fa trascinare dalla corrente. E’ vivo e vegeto e lotta insieme a noi, mantiene acceso il fuoco con onestà e rispetto del proprio passato, con cui il legame è sempre saldo, un fattore questo che, inevitabilmente ha mantenuto longevo e stabile il progetto.
I singoli "We'll Be Back" e "Night Stalker" (con il cameo di Ice T), consapevolmente o meno, costruiscono un lungo ponte che collega i Megadeth agli anni d’oro, replicando, in qualche modo, il suono iniziale della band, senza che tuttavia si posso parlare di clonazione, perché esuberanza e gagliardia danno nuova linfa a una formula altrimenti fin troppo istituzionalizzata. Si gode fin da subito, e subito tutto appare eccitante, i vecchi tempi tornano in vita, ma senza nostalgia. Mustaine non riesuma, fa solo quello che sa fare al meglio, mettendoci un cuore grande così e la solita abilità tecnica. A dare manforte, il talentuoso Kiko Loureiro, i cui straordinari assoli sono un ulteriore gancio con frammenti del passato.
Sebbene l'autoplagio sarebbe comprensibile, specialmente in questa fase avanzata della carriera della band, le canzoni in scaletta assumono, spesso, colorazioni diverse quando Mustaine riesce abilmente a mescolare le carte, come nel finale ibrido della cupa "Dogs of Chernobyl", che fonde il suono Megadeth dei decenni ’80 e ’90 per un risultato davvero centrato. Se alcuni brani come "Junkie" e "Killing Time" suonano prevedibili, cioè suonano esattamente come un brano che ti aspetteresti dalla band, sorprende, invece, in positivo, l’approccio melodicissimo e quasi “radiofonico” di "Mission to Mars", che non cambierà la vita, ma, accidenti, è divertentissimo e si assimila in un paio di ascolti.
Forse un minutaggio più ridotto e una maggior focalizzazione sulla scrittura avrebbe giovato maggiormente alla riuscita del disco, che, qui e là, denuncia qualche momento buttato lì solo per riempire gli spazi. Sono, però, dei difetti su cui è possibile sorvolare e che non incidono più di tanto su un album attraversato da echi del passato, ma ciò nonostante ancora vibrante, per buona parte ispirato, e abbastanza rumoroso da far danni ai padiglioni auricolari, così da mantenere vivo e vegeto un marchio storico che ha davanti a sé, ancora, un futuro. E fin tanto che il livello è questo, rallegriamoci che MegaDave sia tornato in salute.