Nulla di scientificamente provato, ovviamente, ma di solito è difficile, se non impossibile, trovare un act che sia riuscito a realizzare dischi memorabili al di fuori del periodo di massima creatività ed ispirazione, il quale normalmente ha una durata limitata, non più di 7-8 anni nella stragrande maggioranza dei casi.
Per la band di Birmingham evidentemente altre regole. Dopo aver vissuto il suo periodo di gloria per gran parte degli anni ’80, con dischi seminali come “Chasing the Dragon”, “On a Storyteller’s Night”, “Vigilante” e “Wings of Heaven”, il richiamo delle Charts americane li ha fatti virare su uno stile molto più FM Oriented, con una serie di uscite che ne hanno mutato l’impronta identitaria con risultati decisamente poco memorabili (e del resto dischi come “Sleepwalking” e “Goodnight L.A.”, con la loro pressoché impossibile reperibilità, certificano una fase che loro stessi probabilmente tendono a dimenticare). Si sciolsero nel ’96, lasciando come testamento un live album, “The Last Dance”, che non rientra senza dubbio tra le loro cose imprescindibili e che più che un regalo d’addio pareva la certificazione ineluttabile di una crisi irreversibile.
Una pausa di qualche anno, durante la quale il frontman Bob Catley, con una serie di dischi solisti di ottima fattura fece tornare ai fan la nostalgia di quelle atmosfere Epic Fantasy che li avevano resi famosi, e nel 2002 decisero di ritornare in pista. I primi due capitoli, “Breath of Life” e “Brand New Morning”, scialbi e privi di idee, non lasciarono tuttavia molte speranze di un ritorno in pompa magna.
Poi, nel 2007, accade l’impensabile: “Princess Alice and Broken Arrow”, a partire dalla copertina di Rodney Matthews che recuperava il primo celebre logo e le suggestioni fiabesche da sempre marchio di fabbrica del gruppo, si configurò come una sorprendente prova di forza, un vero e proprio ritorno alle sonorità di “On a Storyteller’s Night”; meno ispirato, certo, ma che potessero raggiungere anche solo questi livelli non ci credeva più nessuno.
Da qui in avanti sono arrivati altri sette album, a cadenza più o meno biennale e uno più bello dell’altro, tanto che ormai non ci sono più dubbi: questo gruppo sta vivendo la fase più splendente della propria carriera, degna in tutto e per tutto di rivaleggiare con le cose per cui è più conosciuta.
E questo, sinceramente, non so chi altri lo possa aver fatto, tra i veterani della scena Rock. Non so neppure da che cosa possa dipendere: sicuramente c’entra il lungo periodo di ispirazione di cui sta godendo Tony Clarkin, da sempre unico songwriter del quintetto, sempre uguale a se stesso e allo stesso tempo mai verboso e mai ripetitivo. E poi la voce inossidabile di Bob Catley, uno che più passano gli anni e più canta meglio, che sarà anche un abusato luogo comune ma che nel suo caso va preso totalmente alla lettera.
La formazione non è più quella classica, visto che nel 2016 ha lasciato una colonna come il tastierista Mark Stanway e da pochi mesi ha abbandonato anche il bassista Al Barrow. Nonostante questo, il succo non è mutato. “The Serpent Rings” è semplicemente il nuovo disco dei Magnum, l’ennesimo tassello di una discografia che da 13 anni non presenta il benché minimo cedimento. La formula non è mutata, a partire dalla splendida copertina del sempre bravissimo Matthews, ed è all’insegna di una continuità che tuttavia non scade mai nella ripetizione stantia di uno schema prefissato. Sonorità sempre all’insegna di un AOR venato di epicità, con atmosfere epiche, sontuose e sognanti, sempre all’insegna di un’eleganza unica e inimitabile. Una scrittura sempre ispiratissima da parte di Clarkin, un Catley costantemente sugli scudi, il resto della band che macina alla grande, un indurimento del suono che sconfina a tratti nell’Heavy e che consente al gruppo di affacciarsi alla modernità senza snaturarsi.
Come sempre alternanza di potenti e rocciosi uptempo (“Where Are You Eden?”, “You Can’t Run Faster Than Bullets”, “Man”), di cavalcate epiche (la title track, “Madman or Messiah”, “The Archway of Tears”) e di romantiche ballate (“The Last One on Earth”, “Crimson on the White Sands”), per un disco che non presenta riempitivi, semmai solo qualche episodio leggermente al di sotto della media generale (“Not Forgiven”, ad esempio, suona un po’ troppo già sentita).
A questo punto l’interrogativo più grande è quanto tempo ancora potranno andare avanti così. Ma dopotutto ce lo chiediamo ad ogni disco e puntualmente a quello dopo riescono a ripetersi. Direi che conviene farsi meno domande e tenerseli stretti.