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RE-LOUDDSTORIE DI ROCK
31/10/2022
The Veils
The Runaway Found
Grazie al potere della musica, magica costruttrice di ponti spaziali e temporali durante l’ascolto di un disco, possiamo tornare nel 2004: all’epoca Finn Andrews, il frontman dei Veils, ha solo ventun anni, eppure mette in mostra una maturità compositiva stupefacente. E allora riscopriamo The Runaway Found, lasciamoci affascinare dal mondo malinconico e delicato delle canzoni al suo interno, piacere e nutrimento per l’anima.

“Blessed's the night, when none of my fears are as dear to me”

“Benedetta è la notte, quando nessuna delle mie paure mi è così cara.

("The Wild Son")

 

Emerge un senso di fragilità in The Runaway Found, album di debutto dei Veils. Un caleidoscopio di emozioni che fanno riferimento al lato oscuro e struggente della realtà descritta dai testi. Vi sono brani che mostrano un tratto comune ben marcato, concepiti intorno a melodie nostalgiche e armonizzazioni di primo acchito semplici, ma efficaci. Fermarsi al semplice ascolto delle canzoni è solo una piccola parte delle sensazioni che possono donare. L’analisi delle liriche, il racconto delle peripezie intercorse per arrivare al prodotto finale e le registrazioni con l’iniziale line-up, che successivamente sarà completamente smantellata, aggiungono fascino all’opera del gruppo.

Finn Andrews nel 2001 è leader di una band composta da Oli Drake (chitarra), Adam Kinsella (basso) e Ben Woollacott (batteria), e risulta pure l’autore di tutte le dieci tracce, scritte nell’arco di diversi anni, tra la Nuova Zelanda e l’Inghilterra. Finn nasce a Kentish Town, un sobborgo di Londra, nell’’83 e vive l’infanzia sballottato tra la capitale britannica, ove, quando presente, abita con il padre Barry, ex membro degli XTC, e Auckland, città della madre, professoressa di Sociologia. Appassionato di musica e letteratura, molto meno della scuola (frequenta la Takapuna Grammar School a Belmont, nella North Shore Ward); il ragazzo a sedici anni è inafferrabile, indomito, eccentrico e coraggioso: suona in molte band, con la chitarra ci sa fare e scrive con ardore i pezzi che in seguito confluiscono nell’album. Una serie di demo vengono proposti con successo ad alcuni music manager e in breve tempo viene stabilito il suo ritorno in UK, al fine di incidere un disco. La prima incarnazione dei Veils, comunque, non ha vita facile; ci sono vari problemi tra il boss della casa discografica prescelta Geoff Travis e il capo della Warner alla quale è collegato e nonostante alcuni singoli lanciati a cavallo del 2002 e 2003, solo dopo la metà di quell’anno la situazione si rasserena. Una manciata di canzoni viene registrata anche insieme a Bernard Butler, ex chitarrista dei Suede, e finalmente nel febbraio successivo The Runaway Found vede la luce.

 

L’opener "The Wild Son" dimostra subito la duttilità artistica di Andrews (nonché il suo background orientato sulla scena postpunk-pop-rock-dark britannica degli Ottanta e Novanta) abile a destreggiarsi tra echi di Smiths, Stereophonics e Placebo, e con il pallino per le orchestrazioni leggiadre quasi a voler richiamare alcune intuizioni dei Verve e soprattutto il successivo periodo solista di Richard Ashcroft. Anche i testi sono ispirati e spesso attingono dalla letteratura inglese: se proprio "The Wild Son" potrebbe far pensare a Wuthering Heights per alcune citazioni, la riflessiva "The Nowhere Man", posta al termine della collezione, riprende la novella per bambini scritta da C.S. Lewis, The Horse and His Boy.

Il ridente rock and roll di "Guiding Light"  nasconde invece la fine di una relazione,  “È facile piangere per amore, molto più difficile è provarci.  Se ne va la mia luce guida.”, preludio alla più bella e struggente canzone all’interno della raccolta.

Ecco, dunque, "Lavinia", un brano ricco di sfaccettature, che colpisce subito per l’incedere melodioso nostalgico, in cui piano, chitarra acustica e violini si intrecciano, liberando ed evidenziando ancora maggiormente il canto tormentato di Finn. La sofferenza trasforma la sua particolare voce prima in un lamento, mentre gli archi continuano con la loro dolcezza a contrastare la malinconia delle liriche, poi in un grido di dolore. Le parole “Lucia, ho camminato su questa terra sconosciuta. La mia Lucia, la mia amante non c'è più. Lucia, amore mio, presto me ne andrò da qui. Lucia, amore mio, la mia vita è finita quando torno a casa…”, concludono una canzone carica di sfumature poetiche, di connessioni letterarie (risulta plausibile pensare alla tragedia Titus Andronicus di Shakespeare) e visioni psichedeliche, aiutate dalle toccanti variazioni sonore al suo interno, come ad esempio una batteria improvvisamente prepotente, come delicati arpeggi di chitarra acustica subito sovrastati dai ricami di un’elettrica. Emerge un quadro desolante, con l’amata Lavinia dimenticata per far spazio all’irraggiungibile amante Lucia; tuttavia l’attesa per congiungersi a quest’ultima è senza conclusione, nient’altro che un differente modo di chiamare la solitudine.

"More Heat Than Light" è il pezzo più potente in tracklist e colpisce duro come una pietra dopo tanta tristezza. Vi è lo zampino del padre Barry nella composizione, e utilizza in modo arguto frasi a tratti criptiche e sarcastiche per condannare il razzismo e il colonialismo. "The Tide That Left & Never Come Back" si avvale, come per "The Wild Son", delle preziose armonie vocali di Ellie Gray, ed è un gradevole mid tempo agganciato a un basso pulsante: pur potendosi classificare come traccia minore, suona piacevole al pari dell’ariosa "The Leavers Dance", dalla vivace orchestrazione, ma un po’ troppo Placebo-dipendente.

 

L’autore Finn Andrews finora ha stupito in questo disco per la maturità delle liriche e la sensibilità proposta nelle melodie che, come già accennato, reinterpretano con profondità e unicità le matrici musicali delle due decadi precedenti; ora evidenzia la sua giovine età, in tutti i crismi e limiti, nell’oscura elegia elettroacustica "Talk Down the Girl", ma lo fa con una sincerità e poesia commoventi. “Così poca conoscenza a me nota, così poco colore da vedere, se non il bianco e il nero, bianco e nero, una sagoma di diciassette anni, se riusciranno a trovare ciò che è rimasto di me…Il mio amore era forte, per ora non c'è più.”, rivendica con fragilità il ragazzo, in questa improbabile ballata (a metà strada tra "Wonderwall" degli Oasis e "(Shades of) Ruinous Blue" dei Cousteau), gonfia di tristezza per un amore difficile da dimenticare nonostante l’orgoglio. Un’altra vetta compositiva presente nell’album, che non smette di sorprendere nel successivo lento, solo piano e slide guitar, intitolato "The Valley of New Orleans". Rimane da brivido anche per il testo, che sembra presagire in parte il disastro compiuto dall’uragano Katrina, pur essendo stato scritto alcuni anni prima.

"Vicious Traditions", penultima traccia, inizialmente ignorata e soffocata dalle altre perle presenti nel lavoro, viene rivalutata nel 2007, quando compare nella colonna sonora di Mr. Brooks, thriller con protagonisti Kevin Costner, Demi Moore e William Hurt: piace per l’incedere lento con il finale in crescendo e per i riferimenti storici che si collegano a una visione pacifista del mondo, in cui la guerra non deve essere nemmeno una extrema ratio.

Gli arrangiamenti curati, la predilezione per sonorità acustiche da abbinare all’orchestrazione spiccano nella conclusiva già menzionata "Nowhere Man". Rimane la percezione che il fulcro dei brani dell’opera sia dato dalle emozioni che li hanno generati e che da esse si nutra la musica, con melodie avvolgenti e armonizzazioni indovinate e incisive.

Un esordio col botto dunque, per i Veils, con The Runaway Found. E prendendo spunto dal titolo, sembrerebbe proprio sia Finn Andrews Il Fuggiasco Ritrovato: il suo oscillare tra Londra e Auckland, la passione per la musica che conduce alla celebrità, non prima di aver vissuto diverse peripezie, coronate da un disco nato dopo una lunga gestazione. In realtà l’artista continuerà il viaggio, tra smarrimenti e ritrovamenti, negli album successivi, insieme ad altri musicisti e a rinnovati stimoli, senza però riavvicinarsi, al momento, alla verve e all’ispirazione del debutto. Quasi un paradosso, ma, forse, la perdita dell’innocenza avvenuta con il trascorrere degli anni in questo caso ha superato la saggezza che si acquisisce grazie passare del tempo, anche se Nux Vomica (2006) e Total Depravity (2016), assodato il fatto che siano molto meno intensi, rimangono da ricordare.