Quando è passato da noi in ottobre per promuovere il suo ultimo disco solista, Luminescence, Bruce Soord aveva anticipato che sarebbe presto ritornato in Italia con i Pineapple Thief. Il gruppo britannico si era esibito l’ultima volta al Live Club di Trezzo d’Adda esattamente due anni fa: è un periodo che ora sembra lontanissimo, ma quello fu uno dei primissimi concerti di un gruppo straniero nel nostro paese in una fase in cui, nonostante l’emergenza Covid fosse ormai alle spalle, l’attività live faticava ancora tantissimo a riprendere. Fu speciale anche per quello, ma non bisogna dimenticare che da quando Gavin Harrison è entrato in formazione, le quotazioni dei Pineapple Thief sono cresciute parecchio anche dalle nostre parti.
Ragion per cui anche questa sera l’affluenza è decisamente ottima, con l’Alcatraz bello pieno che è sempre un bel vedere, anche se si tratta della configurazione a capienza ridotta, con il palco più piccolo.
In apertura c’è Randy McStine, un altro personaggio che i fan dei Porcupine Tree conoscono bene, visto che da anni accompagna dal vivo Steven Wilson e compagni, occupandosi delle backing vocals e della seconda chitarra.
Prima coi Lo-Fi Resistance e poi in veste solista, però, ha messo insieme una discografia consistente e questa sera arriva per la prima volta in Italia a presentare il proprio materiale. Il suo è uno show piuttosto scarno, perché sul palco è da solo e deve dividersi tra Synth e chitarra, facendo dunque anche un discreto utilizzo di basi. Al di là di questo, la mezz’ora di musica che ci propone è decisamente gradevole, canzoni dall’anima acustica impreziosite da una prova vocale calda ed espressiva. Ci sono alcuni estratti dall’ultimo Unintentional, ma anche un paio di episodi dai dischi realizzati assieme al batterista Marco Minnemann. Senz’altro da rivedere in un contesto tutto suo, anche se dubito che qui ne avremo mai la possibilità.
I Pineapple Thief sono tornati il mese scorso con It Leads to This, disco ispiratissimo, più raccolto ed intimista rispetto al precedente Versions of the Truth, ha concesso meno dal punto di vista strumentale e di più alla classica formula da songwriter di Bruce Soord, ma è comunque un lavoro dove la band mostra una coesione notevole tra tutti i suoi componenti.
Che ne siano consapevoli anche loro è provato dal fatto che anche questa sera, così come in tutto il tour, lo hanno eseguito per intero, una dichiarazione d’intenti molto forte, del fatto che se si ha del materiale nuovo così buono non ha senso rimanere attaccati al passato.
E così dall’iniziale “The Frost” fino alla conclusiva title track, le otto canzoni del disco hanno marchiato a fuoco una scaletta comunque ben bilanciata tra vecchio e nuovo. Dal vivo tutti i brani hanno una resa superlativa, anche se “Rubicon”, “It Leads to This” e “All that’s Left”, più dinamiche e tirate, sono state quelle che personalmente ho preferito.
Sulla prova offerta dal gruppo c’è ben poco da dire: i suoni erano nitidi, gli strumenti ben amalgamati tra loro, per cui abbiamo potuto apprezzare in pieno la profondità e a tratti la “solennità” di una proposta che, come lo stesso Soord ha detto, va a pescare un po’ da tutti i generi musicali, senza troppo preoccuparsi che sia Prog o meno.
In effetti, molto di più che i Porcupine Tree, un nome a cui sono spesso accostati, ancora di più da quando condividono il batterista, i Pineapple Thief sono debitori alla tradizionale forma canzone, spesso declinata nelle forme dell’Art Rock e dell’Alternative, e preferiscono concentrarsi sul feeling generale piuttosto che su intricate parti strumentali ad alto tasso di virtuosismo. Essendo comunque musicisti eccezionali, anche all’interno di strutture più o meno lineari riescono a fare lo stesso il bello e il cattivo tempo; Gavin Harrison su tutti, che stupisce come sempre per l’estrema naturalezza con cui suona, facendo sembrare banali anche le cose più difficili. Ma anche il bassista Jon Sykes e il tastierista Steve Kitch fanno il loro dovere egregiamente, con il contributo indispensabile del secondo chitarrista Beren Matthews, che non fa parte della formazione principale ma che dal vivo è fondamentale per arricchire le parti strumentali.
Tra le cose vecchie non mancano gli episodi più importanti del disco precedente: “Demons”, “Our Mire”, Versions of the Truth”, le rivisitazioni delle vecchie “Dead in the Water” e “Give it Back”, entrambe dall’omonima raccolta che ha riarrangiato e riregistrato una serie di pezzi anteriori all’entrata di Harrison nel gruppo. Sono tra le poche cose provenienti dai primi dischi, anche se una particolarmente emozionante “The Final Thing on my Mind” va a chiudere in bellezza il set regolare, prima che i bis, con i due classicissimi e sempre meravigliosi “In Exile” e “Alone at Sea” mandino tutti a casa dopo quasi due ore di concerto al limite della perfezione.
Con una band di questo calibro si va sempre sul sicuro e anche stasera ce ne andiamo via contenti. Decidessero di ripassare per l’estate non ci dispiacerebbe per nulla.