Si rimane sorpresi ascoltando il secondo album dei Candy Opera, uscito a distanza di due anni dal primo, il quale conteneva, udite udite, canzoni di trenta e più anni fa, che fino ad allora erano state ascoltate soltanto in versione demo. Strano destino quello della band di Liverpool; formatasi nel 1982 e destinata a grandi cose, perlomeno ascoltando i brani contenuti in “45 Revolution Per Minute”; cosa che purtroppo non è avvenuto, facendo rimanere la band un piccolo culto per gli archeologi del pop intelligente. Non sembri esagerata la definizione di “archeologo del pop”, in quanto ben pochi sono stati quelli che ne conoscevano le gesta e per così tanto tempo lo scrigno di canzoni dei Candy Opera è rimasto nascosto.
Nati nel 1982, cavalcando l’onda di band quali Aztec Camera, Prefab Spout e Pale Fountain, scioltisi nel 1993, la band di Liverpool ha avuto giusto il tempo di una apparizione nell’inglese Granada TV e fare da supporto in un tour dei Pogues, per poi svanire tra incomprensioni, scazzi e promesse non mantenute.
Dobbiamo all’etichetta tedesca Firestarter Records di Berlino che è riuscita a raccogliere quei demo, innamorarsene e riunirli per l’album di debutto dei Candy Opera nel 2018, i quali, per festeggiare l’evento, hanno riformato la band e portato in concerto quelle canzoni.
Fortunatamente la storia non si è conclusa là, e a distanza di due anni i nostri si sono messi a lavorare sodo per regalarci quelle delizie di musica pop che possiamo ascoltare nel nuovo “The Saint Patron Of Heartache”. Già, chissà a chi potrebbe essere dedicato il “santo patrono dei cuori infranti”? A giudicare dal tenore del disco i primi nomi che balzano in mente potrebbero essere Paddy McAloon, ascoltare la voce del cantante Paul Malone come ammicca al genio di Birmingham, e come nelle costruzioni melodiche dei brani la mente corra in direzione Roddy Frame.
Ecco, se pensassimo di trovarci davanti a delle copie carbone, compiremmo una vera ingiustizia, dacché i brani spiccano di personalità propria e queste canzoni, che profumano di quella gloriosa stagione, non temono confronti con i maestri del genere.
Sì rimane sorpresi per la sfiga che i Candy Opera hanno avuto, sfiga che ha continuato a perseguitarli ancora oggi, dal momento che non hanno potuto portare in tour le canzoni del nuovo album per i motivi che tutti sappiamo.
Le canzoni: si parte con l’epica e cinematica “These Days Are Ours”, rivendicazione di quello che non è stato e che potrebbe essere adesso, un primo tassello di quell’artigianato pop che si dispiega in tutto il suo splendore in uno degli apici del disco, “Tell Me When The Lights Turn Green”, un gioiello da ascoltare e riascoltare, fuori all’aperto, senza mascherina e respirando la fresca aria del mattino. Un pezzo talmente bello, questo, per cui ti chiedi perché nella vita delle canzoni che ascolti in radio debbano emergere soltanto gli stronzi.
“Crash” è la storia di una ragazza che sembra una “Venere in Blue Jeans”, brano che ha un bel tiro, mentre nella successiva ed autobiografica “Start All Over Again” si stemperano i toni e Malone ci tiene partecipi delle sue tante notti insonni dove immaginava di vivere una vita diversa, ma con la forza di buttarsi alle spalle il passato e ripartire di nuovo.
“See Trough Your Eyes”, introspettiva e malinconica fa da preludio a “Five Senses, Fuor Seasons” pezzo dalle inflessioni folk, in un gioco di armonie intrecciate tra chitarre acustiche e accompagnamento in coro e battito di mani.
“Real Life” parte con chitarra acustica, pezzo cantato con l’effige di McAloon sul comodino e Roddy Frame nel taschino, e si dispiega in tutta la sua ariosità nel ritornello, bella ed evocativa, con un gran bel solo di chitarra elettrica sul finire del pezzo.
“Enemy” ci regala sensazioni pop psichedeliche e un frullio di chitarre jingle jangle, splendida canzone, l’ennesima, a dimostrazione della scrittura sopraffina dei Candy Opera, e di quella atmosfera epica che ogni loro brano riesce a trasmettere alle orecchie dell’ascoltatore.
Ancora morbidezze acustiche ed intrecci armonici in “Freedom Song” dalle influenze beatlesiane direzione Paul McCartney, con il suo piccolo carico di psichedelia nell’accompagnamento degli strumenti ad archi.
“Hashtag Text Delete” è come una cavalcata nervosa che mi ha riportato alla sproutiana “Faron Young” con quell’incedere country rock con annessa armonica.
Arrivati a quasi tre quarti d’ora di ascolto pensi che già così i tuoi sensi siano appagati; madornale errore. Cosa può mancare ad un disco così? Sì, un pezzo Soul, sicuro. Niente paura, arriva. Ecco “Rise” infatti, il pezzo che mancava. Soul con i fiati e chitarra wah wah, il giochino del citazionismo questa volta mi porta in direzione Style Council, ma anche qui niente paura, è tutta farina del sacco dei Candy Opera. Bella, bella, peccato che come inizia sia già finita, e si ritorna al pop di “Crazy”. Poco male, anzi degno finale del disco (sì, ok, ce ne sono altri due come bonus track, ma non ho intenzione di dilungarmi oltre). “Crazy” è così elegante e raffinata che starebbe bene in un repertorio da crooner alla Tony Bennet.
Insomma, tanta carne al fuoco. Chi ama il pop degno di questo nome troverà nei Candy Opera un nuovo strumento di devozione, per chi bazzica altri sentieri ne consiglio l’ascolto, hai visto mai che non si convertano al verbo. Per quanto mi riguarda, riascoltando per l’ennesima volta il disco, mi do di coglione da solo per aver inserito “The Saint Patron of Heartache soltanto al terzo posto della mia top ten annuale.
Comunque, lunga vita ai Candy Opera!