Cerca

logo
REVIEWSLE RECENSIONI
20/12/2023
The Oscillators
The Oscillators
I The Oscillators (o lui, Olli Klomp, il vero oscillatore) ci regalano un disco positivo e coraggioso, pregno di presenza, musica, cuore ed un pizzico di spavalderia oltre che di mestiere. Non sarà un capofila nel genere ma riesce comunque a stare in piedi ed a lasciare la voglia di ripremere play e godersi questo flusso.

Registrare un disco su 4 tracce può essere un limite? Certo che no, se l'attitudine di chi registra e scrive è stimolata dal dover mettere su nastro e al meglio quello che sta facendo.

È il caso dei The Oscillators e del loro omonimo album uscito per Tramp Records. Siamo di fronte ad una funk band, o più propriamente un collettivo, di Seattle, coordinata dal batterista Olli Klomp con la cooperazione dei The Polyrhythmics, The Pulsations, Rippin’ Chicken, il trombettista Lucky Brown e The Trueloves tra gli altri. La line up comprende infatti una lunga serie di collaborazioni, tutte ispirate e facenti parte del cosiddetto Deep Funk, genere con cui gli piace essere ricordati e descritti. Tutti spinti dalla stessa sensazione e da una sola domanda che accompagna un groove, una suonata collettiva: "Ci piace?". E se ci piace, lo teniamo e ci lavoriamo.

 

Il lavoro parte da una batteria su due tracce, perché anche la batteria contiene melodia, come ricorda Olli, e ciò che accade è che ci si ritrova sempre di fronte ad un'ispirazione in atto, impegnata a trovare i suoi spazi. C'è arrangiamento, un'idea sonora chiara, batterie sature, tempi di attesa, fiati ben arrangiati e tutta quell'incertezza che emerge da una situazione in vera presa diretta, come se fosse un live, di cui chi scrive vuole sottolineare la rarità: ha un fascino da cui è difficile staccarsi, semplicemente considerando l'abitudine alle produzioni stratificate e contemporanee con cui il nostro principio di familiarità fa i conti, volenti o nolenti, quindi ben venga la sorpresa di sentire un live appena più prodotto messo su nastro.

 

Lo “strato musicale” da cui si è attraversati durante l'ascolto è simile per almeno una manciata di pezzi davvero piacevoli, ma di una piacevolezza di cui sò che in un certo senso potrei anche stancarmi.

Bella l'opening “Track Suit” e la sua perfetta funzione di apripista, con le sue progressioni armoniche storte di chitarra, la goffa e ritmata “Packet O'cheese” con la sua unica voce introduttiva e il lungo solo di chitarra, che insieme ai fiati e alla batteria cerca di tenere vivo il momento. Tocca allora a “Good news”, appena più organizzata grazie ad un groove preciso tra ritmo, ancora corde e organo, stavolta funzionale nel portarci a giro in questa libertà.

È un attimo e siamo in “Let's get there” che ricorda Kenny Dorham e la sua particolare maniera di coinvolgere ed amalgamare. Fiati che sanno di Cuba ed è un piacere. “Spanish monster” profuma nel suono del grande Brown album dei Primus e si segue con piacere in tutte le sue trame armoniche incastrate con le pause ritmiche. Ci sono incertezze, imprecisioni che fanno sentire il momento, l'improvvisazione, la presenza fisica di chi suona, l'attesa e alla fine di tutto ciò la cosa più importante che rimane, la fiducia. Solo accennato di sax, piccolo arrangiamento e stop.

 

Con “Intersextion” accade finalmente qualcosa di nuovo e straniante: un momento free e pazzo di libertà assoluta di fiati e batteria. 19 secondi e siamo già dentro “Spinning species”. Questa coinvolge in maniera diversa ed è bastato affidare oltre ai fusti e alla batteria un piccolo compito ritmico ostinato all'organo, vitale, tanto che arriviamo con le antenne drizzate all'entrata di voce che sa di Beck, cosa che non può che essere un piacere. Bella traccia.

“Emulsify” torna nel mood di inizio disco, cosa che mi fa immaginare per la prima volta la fine; non un peccato quanto un marchio. “Flip flap” è ancora in quest'ambiente, soltanto dei giochi di effetti sonori riescono ad attrarre e indirizzarci appena altrove, è poco ma comunque siamo sempre nel groove. “Pull one down” gioca ancora tra fiati e batteria, lasciando chi ascolta nel mezzo di uno street più o meno dichiarato e comunque piacevole, grazie anche alle due batterie sovrapposte.

“Filterface” è annotabile più per il ritorno nel sound della chitarra, oltre ad una progressione armonica simile al blues anche se blues non è, almeno fino alla risoluzione tradita da un obbligato di basso che la seconda volta non si perita a degenerare in un loop sonoro. “Elaborate” è piacevolmente aiutata da un bel tema di synth che gioca a fare la chitarra solista e risolve il pezzo, facendolo entrare di diritto sul podio insieme a “Spinning species” e “Good news”.

 

Si arriva alla traccia di congedo e “Trees in space” ci accoglie nel suo mondo fatto di piatti sovrapposti e fiati nascosti. Qualche parola ci distrae da questo senso di bello smarrimento ritmico e forse ci vuole dire qualcosa di più rispetto al suo stretto significato. "Looking for space connected with trees. Life in the form in the shape of the breeze. Taking the air that comes from the trees.  

Il messaggio è chiaro, si vuole essere semplici, universali, poche parole, ma dedicate alla natura e allo spazio. Due mondi apparentemente antitetici ma in realtà stretti l'uno all'altro, almeno nella mente della giusta persona. La tromba di Lucky Brown, i synth fanno il resto, si respirano i Pink Floyd di “A saucerful of secret” filtrati da un mondo ostinato e ritmato. Un loop vocale libero ci porta sulla soglia di casa. Fade out e lentamente ci troviamo all'aria aperta.