Il bello della musica è che poi, quando resti da solo con lo stereo acceso e il disco che suona e nient’altro, c’è la musica e basta. I fumetti, i cartoni animati, i teaser su youtube, i click, lo streaming, persino lo storytelling che ci sta dietro e tutto il resto svaniscono e lì è chiaro che, al di là del dibattito sul dispositivo grazie al quale è possibile l’ascolto, se la musica è di qualità lascia comunque il segno. Ora, premesso che Damon Albarn è un genio e che i Gorillaz non sono quella band che si ascolta nell’attesa che i Blur facciano uscire qualcosa di nuovo o, comunque, un mero divertissement estemporaneo e un diversivo alla sua (di Damon Albarn) ragione sociale principale, a vent’anni di distanza dalla fondazione dei Gorillaz direi che possiamo scrollarci di dosso tutto il concept con cui la cartoon-band è stata creata e concentrarci su un superlativo disco di musica pop. Non che i precedenti non lo fossero, eh.
Quindi per una volta lasciate perdere Jamie Hewlett (senza offesa, ma dopo vent’anni la narrativa dei disegni animati ha ampiamente rotto il cazzo) e i personaggi della cartoon band (idem come sopra), tanto abbiamo da tempo conseguito la maggiore età e i passatempi da ragazzini possiamo lasciarli ai nostri figli (se non ai nipoti), e concentriamoci sulla musica che ha un nome e una filosofia che è “The now now”, traducibile più o meno con “viviamo adesso, adesso”, un monito che suona come un impeto di iper-epicureismo. Una manciata di canzoni scritte durante il tour del precedente “Humanz” e, probabilmente per questo, in grado di trasmettere maggiormente l’idea della volatilità, degli spostamenti di stato d’animo in funzione del territorio circostante, dell’esperienza del moto a luogo, della composizione funzionale a riempire un contenitore di suoni.
La formula è sempre la stessa: quel modernismo anni 90 che suona ancora tremendamente a lungo termine (chissà per quanto tempo potremo ancora vivere di rendita) unito alla malinconia del timbro vocale di Damon Albarn che fa da collante all’electro-pop-rock-black dei brani e potremmo andare avanti all’infinito, con le etichette, se non bastasse - giunti al 2018 - segnalare che comunque un nuovo disco dei Gorillaz può essere un genere a sé e ancora qualcosa di sorprendente.
Non dimentichiamo inoltre che Albarn ha 50 anni e che la vision alla base di questo progetto - riassumibile più o meno con il fatto che nella realtà virtuale puoi essere chi vuoi essere - oggi è il vero e incontrastato pensiero unico, così diffuso che facciamo fatica a capire se siamo al di qua o al di là del cartone animato. L’invito è quindi di spegnere tutto e di lasciare solo che gli undici brani di “The now now” possano divertirci allo stesso modo in cui “Clint Eastwood” ha contribuito a persuaderci che il duemila, con i suoi non-luoghi culturali, potesse essere un nuovo novecento, con Internet al posto dell’elettricità e, visto da qui, con la curiosità al posto del populismo.
Nel nuovo disco dei Gorillaz gli ospiti si contano sulle dita di una mano. In “Humility”, la prima traccia e il singolo che ha preceduto l’album, risalta l’inconfondibile chitarra di George Benson, proprio quello di “Give Me the Night”. “Tranz” è un’eccellente canzone synth-wave, con arrangiamenti che richiamano certi passaggi di tastiere di “A broken frame” dei Depeche Mode. Il tenebroso soul-funk del brano successivo, “Hollywood”, vede la partecipazione di Snoop Dogg e del producer Jamie Principle. “Kansas” è l’ennesima composizione strampalata di Albarn e fa il paio con la successiva “Sorcerer”, illusoria quanto l’apparente facilità con cui alterna tempi pari e dispari. “Idaho” suona come una ballata dei Blur, una sorta di “Tender” senza batteria e percussioni, mentre il registro timbrico torna, subito dopo, sulla musica black e l’old-school strumentale di “Lake Zurich”, uno di quei brani in cui ti aspetti che la Sugarhill Gang inizi prima o poi a rapparci sopra.
Da questo punto in poi, “The now, now” prende il volo e l’adesso del titolo si trasforma in un domani da rincorrere per non lasciare che il disco finisca più. “Magic City” è uno di quei pezzoni dove la melodia cantata da Albarn dà il meglio di sé, la rarefatta e conturbante “Fire Flies” non lascia il tempo necessario per adattarsi al ritmo senza capo né coda, “One Percent” che ha tutta l’aria di aver messo in musica una trasmissione qualunque dallo spazio, fino alla coda trascinante di “Souk Eye” e la sua house che perde pezzi per giungere al traguardo con il minimo indispensabile e lasciare un suono infantile a chiudere i giochi, una specie di glockenspiel che ci ricorda che, comunque, i Gorillaz e i loro album restano tutt’ora uno scherzo d’artista, anche se a noi piace prenderli sempre più sul serio.