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REVIEWSLE RECENSIONI
25/09/2019
Korn
The Nothing
In “The Nothing” Jonathan Davis guida i Korn in un viaggio oscuro e fortemente influenzato dalla morte della moglie Deven. Il risultato è il disco più vulnerabile e maturo pubblicato dalla band

«Perché mi hai lasciato?» È con queste parole, sostenute da un funereo suono di cornamuse come non si sentiva dai tempi di Issues, che si apre The Nothing, tredicesimo album in studio dei Korn. È chiaro fin da subito (e i singhiozzi e le urla che si susseguono nei 90 secondi di “The End Begins” sono lì a confermarlo) che questo non è un disco come gli altri per la band di Bakersfield. I Korn hanno abituato da sempre i propri fan a un certo autobiografismo in musica (si pensi solo a “Daddy” nel disco d’esordio), ma mai prima d’ora un intero album ne era impregnato con tale intensità e in maniera così totalizzante. In The Nothing, infatti, Jonathan Davis non racconta degli abusi subiti dal padre oppure del bullismo di cui è stato vittima alle scuole superiori, ma utilizza il disco per compiere un viaggio catartico e oscuro nel tentativo di esorcizzare la morte della moglie Deven, avvenuta nell’agosto dello scorso anno in seguito a un’accidentale overdose.

 L’album, il cui titolo è ispirato al Nulla de La storia infinita (l’oscura entità che minaccia le terre del Regno di Fantàsia), è quindi un progetto del tutto particolare all’interno della discografia dei Korn, sia per le tematiche trattate sia per il metodo di scrittura e registrazione adottato. Prodotto come The Serenity of Suffering da Nick Raskulinecz (Mastodon, Deftones, Alice in Chains), il disco ha avuto una gestazione particolarmente lunga. Jonathan Davis, infatti, ha registrato le tracce vocali in solitaria nel suo studio di Bakersfield, mentre la band ha lavorato a Nashville sotto la guida di Raskulinecz. Inoltre, per la prima volta dai tempi di See You on the Other Side, i Korn si sono affidati ad autori esterni: Lauren Christy di The Mathrix è intervenuta in una manciata di brani, mentre Billy Corgan e John Feldmann hanno collaborato a “You’ll Never Find Me” e “This Loss”.

Il risultato è, diciamolo subito, l’apice della fase 3 dei Korn, un periodo che si può far iniziare con l’ottimo The Path of Totality, dopo che per diversi anni (sostanzialmente da Take a Look in the Mirror), la band ha conosciuto non poche difficoltà, tra dischi poco riusciti (Untitled) e maldestri tentativi di tornare ai fasti del passato (Korn III: Remember Who You Are). Inserendosi pienamente sulla scia dei lavori post reunion, The Nothing eredita dai recenti The Paradigm Shift e The Serenity of Suffering un sound moderno fatto di riff brutali, ritornelli radiofonici e una produzione scintillante, ma guarda anche al passato riprendendo, rielaborando e rinnovando atmosfere care a chi è cresciuto con Issues e Untouchables (non a caso l’album più amato da Davis & Co.), dove l’elettronica è sì presente ma in maniera sempre discreta.

Non è del tutto fuori luogo, quindi, definire The Nothing come il disco della maturità dei Korn. Un lavoro particolare, nel quale la band – i chitarristi James “Munky” Shaffer e Brian “Head” Welch, il bassista Reggie “Fieldy” Arvizu e il batterista Ray Luzier (che ormai ha gli stessi anni di servizio del suo predecessore David Silveria) – è al completo servizio di un Jonathan Davis che non ha paura a mettersi a nudo, permeando di angoscia ogni canzone e riversando sull’ascoltatore rabbia, dolore e senso di colpa. Non è un ascolto emotivamente facile, The Nothing, e nonostante le melodie impeccabili dei ritornelli e le chitarre che dialogano scambiandosi riff e arpeggi, non è possibile affrontarlo con spensieratezza e superficialità. “Cold”, “You Never Find Me” e “Can You Hear Me”, i tre singoli che hanno anticipato l’uscita dell’album, nonostante l’afflato radiofonico sono dei veri e propri shock emotivi, così come lo sono“The Darkness is Revealing” e “The Ringmaster”, due canzoni che sembrano – ed è un complimento – outtake di Untouchables.

Nella seconda parte dell’album la band si lascia andare e spuntano fuori il basso Funky di “Gravity of Discomfort”, i riff à la Slipknot di “Idiosyncrasy” e “H @ rd3r”, e l’emotività di “Finally Free” e “This Loss” , due delle canzoni nelle quali Davis elabora più da vicino il suo lutto. Sono momenti davvero strazianti, pregni di un dolore autentico che non è facile da sostenere. Ma il livello di vulnerabilità massima, lo si raggiunge nel pezzo finale, “Surrender to Failure”. Con un mix di elettronica discreta, batteria marziale e pianoforte che sembra preso di peso da The Downward Spiral dei Nine Inch Nails, Jonathan spoglia la propria anima e racconta tutto il suo fallimento in quella che si candida a essere una nuova “Hurt”. Le lacrime – vere – che chiudono il disco sono quelle di un uomo straziato dal senso di colpa. E a chi ascolta, non resta che rimanere, per un attimo, in silenzio. Un finale perfetto per un disco diverso, sincero e coraggioso. Forse The Nothing non è un capolavoro, ma ci va incredibilmente vicino.


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