Nell'anno che ci ha visto tutti rivivere il grande processo ad O.J. Simpson in quella che è una delle migliori serie TV dell'anno -American Crime Story-, un'altra serie (o miniserie) ha saputo tenere con il fiato sospeso, mostrando lo stesso impianto e quasi la stessa cura per una ricostruzione processuale.
Ma non si è parlato altrettanto di The Night Of, prodotto di classe HBO, vuoi perché non racconta un caso famoso, vuoi perché è un remake dell'inglese Criminal Justice o perché è andata in onda in una calda estate.
Ed è un peccato, che non se ne sia parlato, perché la (mini)serie, in soli 8 episodi, è capace di tenere testa a Ryan Murphy & Co.
Capiamo subito che qualcosa è in agguato nella notte di Nasir, lui, ragazzo semplice e studioso di una laboriosa famiglia pakistana trapiantata da una generazione a New York, viene invitato a sorpresa alla festa della squadra di basket a cui dà ripetizioni. L'amico lo lascia a piedi, ruba il taxi del padre, ma qualcosa, quel qualcosa che non va lo sentiamo arrivare, e ha le sembianze di una ragazza sola, solitaria, che sul suo taxi sale e con lui stringe una strana amicizia.
Insieme, prenderanno svariate droghe, ingurgiteranno parecchio alcool, finiranno a letto assieme. Ma, quel qualcosa di cui sopra, arriva come una mazzata, quando Nasir si sveglia, va a salutare quella misteriosa ragazza, e la ritrova in una pozza di sangue.
E scappa, Nasir, in una notte che ormai è diventata giorno, scappa e incontra subito la polizia, che lo ferma, lo trattiene per guida in stato di ebbrezza, lo riporta sulla scena del crimine chiamati da un vicino allarmato, e infine, lo arresta.
Ma sarà stato davvero Nasir ad uccidere quella ragazza di cui non sa nemmeno il nome?
Noi, come lui, continuiamo a dubitare, mentre l'avvocato all'apparenza peggiore, prende il suo caso proprio per caso, lui, John Stone, dalla vita travagliata, da un eczema che lo costringe ai sandali, è abituato ad avere a che fare con prostitute e balordi che altro non si possono permettere, mai un omicidio gli è passato tra le mani.
È la sua occasione, forse, perché negli occhi di un ragazzo finito in qualcosa più grande di lui, c'è una luce a cui non è abituato.
Assistiamo così alle indagini della polizia da una parte, alla costruzione dell'accusa dall'alto, affezionandoci a quell'avvocato da strapazzi che le prova tutte per farsi passare l'eczema e per mantenere un gatto di cui è allergico, mentre il suo assistito si trasforma sotto i nostri occhi, in attesa di giudizio in carcere.
Il fiato, è sempre sospeso, perché i tempi sono quelli densi di una storia appassionante e di un prodotto di gran classe.
E sembra strano immaginare qualcuno di diverso nei panni di John Stone.
Doveva esserci James Gandolfini, prima che il tutto andasse in stand by, ed è stata proprio la sua morte a dare il via al progetto, ripartito in suo onore. Al suo posto, prima Robert de Niro, poi per problemi contrattuali, John Turturro, che negli abiti sgualciti di John Stone, nei suoi modi strani, solitari ma dal gran cuore, è perfetto.
Lui, che si trasforma in portentoso detective, ci porta per mano per questi otto episodi, facendoci temere e sperare, per quel finale che sappiamo sarà definitivo.
E lo si saluta con il cuore che ancora batte forte, si saluta la bellezza e la classe di una (mini)serie di cui si dovrebbe parlare di più.