La vicenda personale e artistica di Hawkins è simile alla sceneggiatura di un biopic in cui non è previsto l’happy end. Nasce nel 1936 da una famiglia poverissima del Mississippi, a 12 anni conoscerà la durezza del carcere, nel 1966 trasferisce armi (chitarra) e bagagli (pochi) a Los Angeles dove cercherà successo e fama ottenendo invece precarietà economica e delusioni artistiche. Per sopravvivere si esibirà a lungo, cappello in mano, sulle strade di Venice Beach. Pochi i momenti di soddisfazione. Alla fine degli ‘80 godette di un discreto successo in Inghilterra grazie ad una intensa attività discografica e live. Il tutto ben presto venne però vanificato dal ritorno negli States che, tra il disinteresse generale, lo fece ripiombare in un sostanziale anonimato. Nel 1994 la possibile svolta personale e autoriale con l’interessamento di una major come la Geffen che produsse The Next Hundred Years e finanziò il tour mondiale che ne seguì. Finalmente, con grande ritardo, un briciolo di celebrità e considerazione sembrò toccargli anche in patria. Non era comunque scritto che il musicista americano potesse beneficiarne a lungo, la sorte dispose altrimenti e, qualche mese più tardi, Ted Hawkins morì a soli 58 anni in seguito ad un ictus. Se andate a cercare il disco su All Music troverete, oltre alle informazioni di rito, la recensione di tale Bill Dahl che, nel bocciare la backing band, allestita dalla Geffen per l’occasione (tra gli altri Tony Berg, Billy Payne, Pat Mastellotto), stronca in sostanza l’intero progetto. Sbrigativa la recensione, stringatissimo il voto: due stelle e mezzo. Appena sotto, il commento di un lettore che, in completo disaccordo, premia Hawkins con cinque stelle e conclude il suo intervento dicendo che questo album è un “tesoro americano”. Ecco, a mio parere, non esistono parole migliori per introdurre questa meraviglia. Un tesoro americano, un tesoro sommerso e pertanto invisibile ad un pubblico ben più numeroso come meriterebbe. Già dal primo ascolto si rimane ammaliati. La voce è carezzevole, avvolge e consola, le canzoni sono fatte di quella materia fragile che spesso contraddistingue le cose piccole ma preziosissime. C’è il Blues, il Soul, Il Rock, il Country, c’è tutta la grande memoria musicale americana che Hawkins maneggia con naturalezza, rispetto e grazia infinita. In alcuni episodi, Strange Conversation, The Good and the Bad gli arrangiamenti sono pretesto sontuoso per evidenziare, ancor più, la voce magnetica di Hawkins, mentre in Big Things, There Stands the Glass, Afraid e soprattutto in Green-Eyed Girl c’è tutto il suo talento compositivo. Sono brani indimenticabili che non ci si stancherebbe mai di ascoltare. Impossibile non innamorarsene se nel vostro passato avete avuto più familiarità con Otis Redding e Sam Cooke che con Mario Biondi. Due le cover, Biloxi, struggente ballata di Jesse Winchester e, in chiusura, la versione per voce e steel guitar di Long As I Can See The Light dei Creedence Clearwater Revival. The Next Hundred Years è quindi una monumentale lezione di songwriting tra raffinatezze acustiche senza tempo e la migliore tradizione musicale d’oltreoceano. Ted Hawkins avrebbe meritato più fortuna in vita. Rimangono le sue canzoni a testimoniare la grandezza di questo imprescindibile quanto sfortunato musicista americano. Raccomandato a chiunque abbia a cuore il suo di cuore per i prossimi cento anni.