Nella loro camera oscura, alla luce rossa di una lampadina a tungsteno, il quintetto britannico sviluppa le immagini nere e bianche dei tormenti che furono di una dark wave decadente, addirittura depressa; infestata dal fantasma di Ian Curtis che scuote catene e metalli. Batteria sbattuta in faccia, che picchia secca ed industriale come il cane di una pistola premuta alla tempia. Chitarra ostinata, autistica in quell’andare a colpire sempre sullo stesso tasto. L’ heavy monotòno dei vecchi Stooges, Roxy Music in filigrana, versione horror punk dei P.I.L. e il sospiro da esistenzialisti senza speranze dei primi anni 80, con Jaz Coleman che canta Requiem a squarciagola, tra il filo spinato sul Muro di Berlino.
Ma potresti anche considerarlo semplicemente come un post punk con grande groove, con il fascino del predicatore, solenne e scatenato al medesimo tempo, di quegli illuminati che hanno avuto la rivelazione in una cattedrale diroccata di Manchester, che vanno diffondendo il verbo di un dark rock da cui filtra la luce fredda di un giorno d’inverno. Elevando a forma d’arte l’eurobeat di Future, così come la tempesta ritmica della titletrack: un tour de force percussivo che fa da tappeto ad un proclama firmato da Swans e Joy Division. Menzione anche per la solenne e decadente Totemic, un cabaret robotico nella Francia occupata. Nostalgico, derivato da mille infatuazioni ben governate, eppure lacerante nei momenti migliori: enorme passo avanti rispetto al già buon esordio di Dissemble.