Dopo cinque anni di silenzio discografico, interrotti solo da un’intensa attività live e da una vasta campagna di ristampe, gli Opeth sono tornati con The Last Will and Testament, quattordicesimo album in studio che si contraddistingue per essere sia il primo concept della band dai tempi di Still Life (1999) sia il primo lavoro che reintroduce i tanto amati (e rimpianti dai fan) growl death metal, assenti da Watershed (2008).
Diffuso con oltre un mese di ritardo rispetto alla data di pubblicazione prevista a causa di ritardi nella produzione, l’album si presenta come un ambizioso ritorno alle origini che non rinuncia però alla sperimentazione progressive che ha caratterizzati i lavori della band a partire da Heritage (2011). Con una trama complessa e stratificata, ispirata alle dinamiche di eredità familiare e ai conflitti interni evocati da serie come Succession, il disco si sviluppa attraverso otto tracce (i sette paragrafi di cui è composto il testamento del patriarca più la conclusiva “A Story Never Told”), intrecciando elementi death metal, suggestioni progressive rock, momenti free jazz e orchestrazioni sontuose, il tutto condito da arditi arrangiamenti vocali finora inediti per un disco degli Opeth.
La storia al centro di The Last Will and Testament è ambientata nel Primo Dopoguerra e come accennato ruota attorno alla lettura del testamento di un ricco patriarca. I segreti che emergono nel corso della narrazione sconvolgono gli equilibri familiari esistenti: due gemelli, creduti legittimi eredi, scoprono in quel frangente di non avere alcun legame di sangue con il defunto, mentre una bambina malata di poliomielite e cresciuta all'interno della famiglia, ma figlia di una cameriera, si rivela essere l’unica legale discendente. Ascoltare il disco è insomma come assistere a una sorta di rappresentazione teatrale, un musical sui generis pieno di tensione e colpi di scena.
Musicalmente parlando, l’album fonde il passato death metal degli Opeth con il loro presente progressive, spingendosi però verso nuovi orizzonti sonori. Fin dal brano di apertura “§1” si avverte infatti l’intento della band di far convivere brutalità e raffinatezza: i growl di Mikael Åkerfeldt si alternano a passaggi melodici arricchiti da cori (inclusa la figlia di Åkerfeldt, Mirjam), un tappeto orchestrale di archi e Mellotron, e riff complessi che evocano i King Crimson. Prima traccia composta per l’album, “§1” è stata messa da parte finché Åkerfeldt non ha completato “§7” ? è stato solo in quel momenti che il leader degli Opeth ha capito di avere in mano qualcosa di musicalmente interessante su cui poter lavorare. Per renderne la complessa personalità del patriarca, Åkerfeldt ha sperimentato come mai prima d’ora con il proprio registro vocale, ispirandosi al grande Scott Walker. L’alternanza tra growl e voci pulite, sostenuta dalle sontuose orchestrazioni di Dave Stewart, infonde all’album un perfetto tono drammatico.
Spetta a “§2” introdurre in maniera compiuta i due ospiti d’eccezione del disco. Il primo è Ian Anderson dei Jethro Tull, che ricopre il suolo del narratore (è presente anche in “§1”, “§4” e “§7”, mentre in “§4”, “§7” e “A Story Never Told” suona anche il flauto), mentre il secondo è Joey Tempest degli Europe, che con un intervento vocale tra Ronnie James Dio e Geoff Tate dei Queensrÿche, amplifica esponenzialmente l’impatto emotivo della traccia. “§2” è costruita su un vecchio riff di Åkerfeldt e condivide con la traccia conclusiva “A Story Never Told” alcune linee melodiche, rafforzando così l’unità narrativa interna dell’album.
La sezione mediana del disco, che va da “§3” a “§5”, esplora territori sonori più melodici e atmosferici, con passaggi che richiamano il folk e le sperimentazioni modali dal sapore mediorientale. Tuttavia, non mancano momenti di pesantezza estrema, con riff serrati un drumming forsennato, dove può dispiegare tutto il suo talento il nuovo batterista, il finlandese Waltteri Väyrynen (ex Paradise Lost), che va ad affiancare i “soliti noti” Martín Méndez al basso, Fredrik Åkesson alla chitarra e Joakim Svalberg alle tastiere.
Ispirata al musical Chess dell’ABBA Benny Andersson, “§3” è uno dei brani più melodici dell’album, con un approccio musicale che richiama i quattro dischi più recenti degli Opeth, ovvero quelli della svolta più palesemente progressive. È un momento di relativa calma, che introduce una riflessione sui conflitti familiari con delicatezza e introspezione. Descritta da Åkerfeldt come la traccia più strana del disco, “§4” si avventura invece in territori free jazz, grazie anche all’arpa di Mia Westlund e al flauto di Ian Anderson. Il brano sfida le convenzioni del genere, mescolando elementi progressive con strutture libere e improvvisative. Tra i brani più tecnici del disco, “§5” è stata una delle ultime tracce composte per l’album. Qui Åkerfeldt si è preso una notevole libertà creativa, integrando influenze mediorientali ispirate ai lavori di Ritchie Blackmore e Jimmy Page con una traccia vocale che evoca nuovamente Scott Walker e il suo “allievo” David Bowie, creando un’atmosfera teatrale che si intreccia alla perfezione con i ritmi sincopati e le orchestrazioni che caratterizzano il brano.
Se “§6” e “§7” rappresentano l’apice della narrazione, con un’alternanza tra passaggi acustici malinconici e esplosioni di aggressività growl, la conclusiva “A Story Never Told”, con il suo incedere da ballad (nonostante il tempo dispari!) è una degna chiusura per l’album, che riporta alle atmosfere dell’amato Damnation (2003). “§6” è una traccia complessa e intensa, con una costruzione che culmina in un finale che lascia letteralmente senza fiato. La sua intensità emotiva e la struttura intricata (tanto il leader degli Opeth è il primo ad ammettere che la band avrà difficoltà a eseguirla dal vivo) ne fanno uno dei momenti più potenti dell’album. Come detto, “§7” è stata la prima canzone completata da Åkerfeldt per il progetto ed è costruita su un riff di chitarra di matrice stoner rock, sui cui si appoggiano delle armonie vocali multilivello che coinvolgono l’intera band. Narrativamente, questa traccia conclude la parte relativa alla lettura del testamento, lasciando emergere tutta la tensione accumulata nei precedenti capitoli.
Spogliata della complessità dei brani precedenti, “A Story Never Told” è una ballata volutamente essenziale, basata sulla pura e semplice emozione, con linee vocali struggenti e un assolo finale di Fredrik Åkesson che ha il compito di risolvere l'intreccio dell'intero disco e portare l'ascoltatore verso un'atmosfera di manlinconica serenità, lasciando intravvedere un barlume di speranza all'orizzonte. Unica traccia con un titolo vero e proprio, “A Story Never Told” è basata su “Wuthering Heights” di Kate Bush e ospita il vero plot twist della narrazione: la giovane orfana eredita tutto, nonostante il patriarca non fosse il suo vero padre perché sterile.
Insomma, non si va troppo lontani dal vero se si afferma che The Last Will and Testament è un vero e proprio capolavoro, capace di racchiude in 50 minuti l’essenza stessa degli Opeth, abbracciando l’oscurità e la complessità del loro passato death metal ma arricchendolo con la maturità compositiva acquisita negli ultimi e più sperimentali anni. Soddisfando le aspettative dei fan storici e anche di coloro che si aspettando da Åkerfeldt e soci sempre qualcosa di diverso, l'album dimostra alla perfezione come anche una band con oltre tre decenni di carriera alle spalle come gli Opeth possa ancora innovare e sorprendere.